Ricossa: il Primo Maggio, festa del Sindacato


DI ALBERTO MINGARDI

TORINO - “Il primo maggio? Ormai è la festa dei sindacalisti”, Sergio Ricossa non ha dubbi. Il padre nobile dei libertari italiani ovviamente non si unisce ai peana per il Labour Day. Però, anche a casa Ricossa, l’uno di maggio lo si festeggia. In modo un po’ particolare. “Una volta, ci capitò di incrociare una manifestazione dei sindacati”, racconta la signora Ricossa, ch’è l’ideologo di famiglia, “e così, per tirarci su di morale dopo aver visto un corteo tanto deprimente, mi sono inventata una specie di Irish Coffe col té, un Irish Tea, con panna e grand marnier”. Prontamente battezzato il té del primo maggio.
“Lo beviamo sempre alla faccia di chi marcia nei cortei”, precisa lui, con un sorriso, “soprattutto quando piove”.

Professore, “tradizioni” di famiglia a parte, non sembra ci sia granché per cui brindare...
Be’, il primo maggio serve soltanto ai sindacati per fare passerella, per ricordare al mondo che esistono ancora, che c’è ancora “bisogno di loro”. Poi serve a certi politici, che annunceranno trionfalisticamente che la disoccupazione sta diminuendo, e se ne prenderanno il merito. Tacendo il fatto che in realtà molti problemi rimangono senza soluzioni.

Ha ancora un senso festeggiare il primo maggio?
Mi chiedo se ce l’abbia mai avuto. Pochissimi lavoratori fanno lavori che piacciono loro, il lavoro è fatica per definizione. Dunque, perché festeggiarlo? 
Bisognerebbe fare quel che fece il genero di Marx, che tesseva l’elogio dell’ozio, del divertimento, dello spasso. 

Senza bisogno di cortei, per giunta.
Già. Anche perché, delle due l’una: o si è felici del lavoro che si fa, e allora il miglior modo di festeggiarlo è passare l’uno maggio in ufficio o in ditta. Oppure, come è più probabile, visto che è festa tanto vale godersela, alzarsi un po’ più tardi, andare a spasso...

Non la pensano così i leader dei sindacati, che si dividono fra una manifestazione e l’altra.
I sindacati ci marciano, è il loro mestiere. Ma c’è da fare una riflessione sul “tipo umano” del sindacalista. Mio padre era un operaio, un operaio della Fiat, e dovette confrontarsi col sindacato sia ai tempi del fascismo sia nell’Italia, più che democratica, “postfascista”. Ebbene, questo m’ha permesso di conoscere diversi sindacalisti, sin da quand’ero bambino. E il sindacalista, come personaggio, è agli antipodi del lavoratore. Ai tempi di mio padre, poi, erano gli operai stessi a identificare nel sindacalista il prototipo del parassita.

Come mai le cose sono cambiate?
Mio padre lavorava alla Fiat, e nel tempo è cambiato l’identikit dell’operaio della Fiat. Al lavoratore piemontese, che aveva un forte sentimento di attaccamento per il suo posto di lavoro, per le sue “macchine”, s’è sostituito, dopo la guerra, un altro genere di operaio. Cioé l’immigrato, che aveva ben meno passione per il lavoro e una maggiore vocazione al parassitismo. I sindacati, in quell’epoca, fecero faville.

Oggi, invece?
Oggi è scomparso proprio l’operaio: gli operai sono ormai dei tecnici, più o meno specializzati, ma con mansioni diverse da quelle di un tempo. E, gradatamente, si vanno staccando dal sindacato-chioccia. Che, non a caso, è ormai diventato un’associazione che pesca più fra i ranghi dei pensionati che in quelli della popolazione attiva.

Tant’è che gli “scioperi generali” sono ormai rarissimi...
Tranne che in alcuni settori, come quello dei trasporti. Lì hanno grande fortuna i sindacati autonomi, i “cobas”, in cui evidentemente chi lavora si identifica di più che nella Triplice. C’è tuttavia un grosso “ma”: visto che stiamo parlando soprattutto di impiegati del settore pubblico, lo sciopero generale, in questi casi, va a danneggiare soltanto la cittadinanza e non il datore di lavoro. Si penalizza il consumatore (che, siccome lo Stato è monopolista, non può rivolgersi alla concorrenza) senza scalfire il datore di lavoro.

Giulio Tremonti, settimana scorsa a “Porta a porta”, ha dichiarato che la sinistra sarebbe “per la libertà di licenziamento, mascherata da flessibilità”. Non ce n’eravamo accorti.
Mettiamola così: la sinistra deve fare i conti con quella “mobilità” che è essenziale al mondo del lavoro. La “mobilità” è un qualcosa di positivo per i lavoratori, vuol dire che si può passare, non appena è possibile e si dà l’occasione, da un’impresa tra virgolette “peggiore” a una tra virgolette “migliore”. Anche la sinistra ha capito che con questa realtà si debbono fare i conti, però - come al solito - anziché lasciare liberi i lavoratori, ci si ripropone di regolamentare minuziosamente la mobilità.

Una flessibilità poco flessibile.
Sì. Il problema è che questo è un tentativo antistorico e, in ultima analisi, masochistico. Gli Stati Uniti godono di uno straordinario benessere perché lì c’è un’autentica flessibilità nel mondo del lavoro. A questo punto un interlocutore di sinistra obietterebbe che vi sono anche delle grandi diseguaglianze. Vero, ma le diseguaglianze sono necessarie allo sviluppo, non c’è crescita (né economica, né civile) nel mondo dei “tutti uguali”. Dio ci scampi dall’eguaglianza!

Come mai, secondo lei, in questa tornata elettorale la Casa delle Libertà non perde occasione per tessere l’elogio della concertazione? E rispolvera quotidianamente argomenti socialisteggianti?
E’ un bel mistero, e lascia perplessi. Credo che il Polo difenda la concertazione perché la concertazione piace a molti degli imprenditori che votano a destra. Gente che, anziché fare il suo mestiere, preferisce sottrarsi alla competizione, e sedersi al tavolo delle trattive a Roma per spartirsi la torta del denaro pubblico con sindacati e burocrati. Purtroppo l’Italia è anche questa.

Da "Libero - Opinioni Nuove"

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