Bush's speech

Doveva arrivare, è arrivata: la rappresaglia americana non è più uno
svolazzo giornalistico, un affannarsi di ipotesi, uno scenario da "Risiko".
Indovinare bersagli e obiettivi ha smesso di essere un gioco di fantasia: è
informazione. E allo scattare dell"attacco, George W. Bush - Presidente,
comandante in capo, bandiera di una nazione nella sua ora più difficile - ha
fatto accendere le telecamere, ha guardato dritto nella cinepresa e si è
messo a parlare, ai suoi compatrioti e ai nostri. Leader del Paese più
grande e generoso del mondo, guida un po' tutti noi, seduti lì, sconvolti
dall'inevitabile, fra un siparietto di Emilio Fede e i lampi verdi della
Cnn.
Cosa ha detto Bush, perché l¹ha detto? Il suo speech entrerà nella storia, è
il lacrime sudore e sangue d¹inizio millennio, ma non è stato un crescendo
wagneriano. Semmai una conversazione in punta di piedi.
Bush non ha voluto ³sacralizzare² il conflitto, la parola Dio l¹ha
sussurrata solo alla fine, quel ³May God continue to bless America² che è
quasi di rigore. Ma in risposta a chi sognava una guerra santa, una nuova
crociata, Bush ha chiuso il discorso una volta per tutte. Cominciando
l¹elenco degli alleati che garantiranno il loro appoggio, spalancando il
traffico aereo o fornendo le basi, Bush ha parlato di quaranta paesi
anzitutto in ³Medio Oriente², poi in Africa, Europa e Asia: non era una
gerarchia, piuttosto una sottolineatura. Anche gli arabi sono con noi.
E, viceversa, chi non è con noi è contro di noi: il Presidente americano
l¹aveva già detto, non sarà una guerra fra due coalizioni, sarà civiltà o
barbarie, dove la barbarie non è l¹Islam ma la violenza. Si comincia dalla
bonifica dell¹Afghanistan, però sarà una guerra senza frontiere, perché il
nemico non è uno solo: c¹è una rete nel mirino, la rete del terrorismo
internazionale. Gli sviluppi futuri restano imperscrutabili, ma Bush non ha
escluso che dopo l¹operazione Afghanistan (che non sarà, in ogni caso,
invasione di massa) possa toccare agli altri ³fiancheggiatori di Bin Laden².
Al di là delle parole forti, dei pensieri rombanti, sono parecchie le tracce
di onestà, gli spicchi di speranza in questo discorso del Presidente.
Anzitutto, quell¹incipit, ³su mio ordine², una presa d¹atto nuova ai tempi
degli ³interventi umanitari², formula truffaldina che maschera l¹orrore
versione politically correct. Bush ha voluto significare un¹inversione di
tendenza: non a caso ha sempre parlato di guerra, questa parola cruda e
terribile, ma vera, anziché trincerarsi in un¹ipocrisia imperiale. Eppoi
questa disarmante chiarezza: la responsabilità è mia, quasi una confessione
davanti al mondo e a Dio. Non una fuga dal peso greve di una decisione
tremenda, anzi: non c¹è orgoglio, ma desolata accettazione.
Poi, Bush passa a definire, immediatamente, gli obiettivi. Sgombra il campo
da equivoci: nel mirino ci sono i campi d¹addestramento di Al Qaeda e le
installazioni militari dei Talebani. Spiega che saranno bombardamenti
mirati, ci andrà coi piedi di piombo: si vuole minare la stabilità del
regime nemico, non assassinare un popolo. Non sarà un altro Vietnam. E¹ con
questa stella polare che si chiede agli alleati di collaborare.
E per provarlo, per farsi scudo della sua buona fede, ³DoppioV² ha
rammentato come non si tratti di una scelta presa a cuor leggero. Abbiamo
tentato di trattare con i Talebani, accusa, ma abbiamo trovato una porta
serrata: e adesso pagheranno.
Ribadisce, ancora una volta, che si mirerà soltanto ad obiettivi strategici,
non sarà una carneficina, bisogna rendere dura la vita per i terroristi,
stanarli come topi. Però ³il popolo oppresso dell¹Afghanistan conoscerà la
generosità dell¹America e dei nostri alleati², accanto ai missili li
bombarderemo con cibo e medicinali: ecco il miraggio di una guerra dolce,
che costruisca anziché distruggere. Ma, sotto sotto, c¹è l¹idea del bastone
e della carota, dare un assaggio di un mondo migliore, tentare il nemico
perché si ravveda.
E siamo arrivati alla frase che più pesa nell¹argomentare di Bush, una frase
scarna, essenziale, che non sono neanche parole, è una pietra, messa lì a
fondare il grattacielo di una pace futura. ³Gli Stati Uniti sono amici del
popolo afghano, e siamo amici di quel milione di persone che pratica la fede
musulmana².
Questo non stempera, ma sottolinea ulteriormente la promessa di dare la
caccia ai barbari che ³profanano una grande religione² in nome dell¹utopia
del terrore: per questo sarà una battaglia lunga, ma per la pace, verso la
pace, all¹insegna della pace. Bush parlava dalla sala dei trattati alla Casa
Bianca, un gesto simbolico: ³siamo una nazione pacifica², ha scandito, ³e
non l¹abbiamo chiesta noi questa missione². Una verità che si è fatta più
vera grazie all¹urlo di guerra di Bin Laden, che finalmente ha rivendicato
l¹attentato dell¹11 settembre. E¹ stato lui, l¹ha ammesso: e le prove
dell¹intelligence, quelle che avremmo voluto vedere e ci hanno tenute
nascoste, non contano più niente. Polverizzate. Parla da solo quel guizzo
d¹orgoglio, sadico e malato.
Siamo arrivati al cuore del discorso di Bush. Che ha chiesto la vita dei
figli e delle figlie d¹America, me ne prenderò cura, ne farò buon uso,
promette. Si toglie il cappello davanti agli uomini in uniforme, si rivolge
a ogni più piccolo ingranaggio della poderosa macchina da guerra a stelle e
strisce, a ogni marine, a ogni soldato. E¹ come gli dicesse: sei importante,
ti voglio bene.
E, in realtà, sta parlando ai civili. Ci ricorda quanto siamo importanti
tutti, ciascuno di noi, persino i più meschini, quanto sia grande il
privilegio di un respiro.
Per questo, Bush ha chiuso il suo discorso di ieri con quella che
probabilmente è un¹invenzione letteraria. Una bambina che gli scrive: non
voglio che mio padre vada a combattere, ma te lo affido. ³La pace e la
libertà prevarranno².
³DoppioV² non si è lanciato in smorfie ardite, non ha sfoderato sorrisi
smaglianti. E¹ stato un discorso fuori dai canoni: dopo la strage di
Oklahoma City, spegnendo per un secondo l¹immancabile sorriso, Bill Clinton
si esibì in una delle sue memorabili performance. Citò San Paolo, e poi Dio
una volta e un¹altra ancora, scandì Giustizia tutto maiuscolo.
Prima di lui, il 2 aprile 1917, era stato Woodrow Wilson a fare dell¹entrata
in guerra degli Stati Uniti l¹occasione per mostrare tutti i trucchi più
sottili della retorica politica. Wilson lascia Dio al suo posto, ma ripete
incessantemente la filastrocca dei diritti umani, il ruolo cui ³siamo
chiamati², l¹ineluttabile destino dell¹America poliziotto del globo.
Capolavoro del genere rimane, ovviamente, la dichiarazione di guerra di
Franklin Delano Roosevelt, che non a caso è assurta a una fama
cinematografica e duratura: quel ³giorno segnato dall¹infamia² (che
l¹infamia di Pearl Harbor fosse tutta presidenziale, lo si seppe solo poi),
la pace spezzata, l¹orgoglio e la necessità implacabile della ³vittoria
assoluta².
Bush avrebbe potuto continuare la tradizione, infarcire il suo speech con
paroloni rutilanti e abbozzare gloriosi scenari di vittoria. Invece no. Sarà
che lui è un Presidente diverso, sarà che è diverso il Paese cui si rivolge:
ma ³DoppioV² non ha promesso una guerra che condurrà dritti verso i campi
elisi, non ha mostrato i muscoli, semmai ha fatto uscire il suo lato umano.
Ha scelto parole semplici, le ha messe in fila, un periodare onesto e
franco: luci ed ombre. Però ci ha incantato, ha suscitato fiducia e
rispetto, si è dimostrato uomo nei momenti difficli - senza gonfiare il
petto, ma compulsando il peso di ogni, singola vita umana.
Il mio amico padre Robert Sirico, che è consigliere della Casa Bianca,
proprio ieri mi ricordava i principi della ³guerra giusta². In primis non
colpire i civili, poi la nozione di proporzionalità fra offesa e risposta,
poi la sete di pace. Bush non ne ha accennato, non ha citato Victoria e
Suarez, se gli parlate di scolastica spagnola magari penserà sia un nuovo
gusto di gelato: ma tutto questo gliel¹abbiamo letto negli occhi, ieri sera.
God bless the President.

Alberto Mingardi