L'immigrazione 

tra "libertà di accogliere"  e "diritto di escludere"

È di questi giorni la notizia che, in Germania, stanno per essere introdotte norme che dovrebbero facilitare la concessione della cittadinanza agli immigrati e anche in Italia, naturalmente, c'è chi vorrebbe seguire quella strada. Per una lucida analisi di tali questioni merita di essere letto un saggio di Hans-Herman Hoppe pubblicato sull'ultimo numero di Biblioteca della libertà in cui la questione viene affrontata all'interno di una prospettiva libertaria. 

Studioso tedesco che da anni insegna all'università del Nevada, Hoppe è un autore favorevole all'avvento di una società fondata sulla proprietà privata e sul libero mercato. Allievo di Rothbard, egli appartiene a quel gruppo di economisti e filosofi che avversano ogni forma di statalismo e di interventismo, ma si è anche messo in evidenza per le sue tesi in materia di secessione e a proposito del fatto che i fenomeni di disgregazione statale sono sempre da sostenere, dato che aprono la strada ad una società più libera, aperta e concorrenziale. Pure in tema di immigrazione, però, le idee di Hoppe sono quanto mai interessanti e meritano di essere richiamate. 

Da libertario, infatti, Hoppe giudica più che ragionevole - nella situazione attuale - che le istituzioni pubbliche introducano precise limitazioni al movimento delle persone da un paese all'altro. Diversamente da quanti pensano che sia ingiusto e controproducente introdurre chiusure alle frontiere, Hoppe contrappone molto nettamente il movimento dei beni e quello delle persone. 

Mentre un prodotto che si sposta dal Canada alla Francia interessa soltanto coloro che l'acquistano e lo vendono (e sarebbe quindi illegittimo, in una prospettiva liberale, impedirne il movimento), diversa è la situazione di un individuo che lasci Ottawa per Parigi. In questo caso, infatti, egli inizia ad usare strade, ospedali, scuole e altri beni pubblici che non ha in alcun modo contribuito a finanziare. Per questa semplice ragione appare del tutto ragionevole il comportamento di quanti chiedono restrizioni all'immigrazione e distinguono nettamente tra la libera circolazione delle merci (libero scambio) e quella delle persone (libera immigrazione). 

Hoppe non ama lo Stato e ancora meno lo Stato sociale. Ma egli comprende perfettamente che finché non verrà cancellata ogni forma di protezionismo e welfare state è giusto che i cittadini pretendano misure a tutela dei loro beni collettivi. Se gli abitanti del Canton Ticino sono costretti a finanziare con le loro imposte un gran numero di istituzioni e servizi, è ovvio che essi vorranno in qualche modo limitare l'accesso a tali beni da parte di soggetti esterni: siano essi provenienti da Como o dallo Sri Lanka. 

Una futura società integralmente liberale, per Hoppe, risolverà certo in modo diverso e ben più naturale ogni forma di circolazione degli individui. Si può parlare di immigrazione, infatti, solo in presenza degli Stati moderni e della loro pretesa di imporci ogni sorta di obbligo. Nella situazione attuale, così, emigrare significa trasferirsi da uno Stato all'altro, abbandonare una collettività per un'altra. In una società autenticamente libertaria quale è quella immaginata da Rothbard e da Hoppe, invece, ogni migrazione non sarà altro che un trasloco: che è quindi del tutto possibile se si paga il pedaggio stradale, se si acquista (o affitta) un'abitazione, se si accettano e rispettano le norme del nuovo condominio e così via. 

Esaminando le motivazioni economiche che spingono molti ad abbandonare il loro paese, Hoppe sottolinea poi come l'eliminazione di ogni politica statalista renderebbe meno acuto il problema dell'immigrazione. Quando masse di cittadini turchi si trasferiscono in Germania risulta del tutto evidente che una quota rilevante di loro non lo farebbe se tra questi paesi non esistessero barriere doganali e se eventuali investitori europei fossero sicuri di trovare, in Turchia, un pieno rispetto dei loro capitali e delle loro imprese. 

Se l'Europa non fosse una fortezza sempre più protezionista e se i governanti di Ankara adottassero una legislazione più liberale, gli imprenditori tedeschi troverebbero vantaggioso portare il lavoro in Turchia (dove i salari sono più bassi) invece che assumere quella stessa manodopera in Germania. Anche i lavoratori turchi, d'altra parte, sarebbero lieti di restare a casa loro: dove un salario inferiore permette spesso una migliore qualità della vita. 

Hoppe è persuaso che "il rapporto tra commercio e migrazione è di sostituibilità elastica (piuttosto che di rigida esclusività)": il che significa che quanto più cresce il commercio tanto più diminuisce la migrazione, e viceversa. Quando si ostacola il movimento dei prodotti con politiche autarchiche e protezionistiche, allora, si pongono le premesse per massicci spostamenti dei lavoratori. 

Non va dimenticato, a tale riguardo, che una parte rilevante delle migrazioni che hanno luogo entro l'area del Mediterraneo deve essere imputata alle politiche agricole e industriali europee che (a causa soprattutto dell'assistenzialismo e del protezionismo di Bruxelles) penalizzano in vario modo non solo noi consumatori e contribuenti, ma anche tutti coloro che - nei paesi del Terzo Mondo - vorrebbero ad esempio produrre cereali o frutta per i nostri mercati e non trovano possibilità di accesso. Nel momento in cui non sono in condizione di lavorare a casa loro e di inviarci quanto producono, essi decidono di abbandonare tutto per venire in Occidente. 

L'adozione di politiche maggiormente liberali, tanto nei paesi ricchi come in quelli poveri, eliminerebbe quindi una parte rilevante dell'emigrazione contemporanea. Ma non tutta: vi è una quota di persone che dall'Africa o dall'Asia vorrebbe comunque entrare nei paesi più ricchi, anche in virtù della costante richiesta di manodopera poco qualificata. 

È proprio di fronte a tale constatazione che Hoppe formula la propria proposta, che sintetizza in questo modo: libertà di accogliere, diritto di escludere. 

La sua idea è ognuno di noi ha il diritto di accogliere, ma anche quello di non accogliere, ovvero sia di non essere costretto ad una coabitazione forzata e ad un'integrazione non voluta. Nel momento in cui siamo costretti a vivere all'interno di sistemi pubblici scolastici, sanitari e così via, è del tutto evidente che chi vuole esercitare il proprio diritto di accoglienza e intende invitare in Germania o in Francia uno straniero deve allora farsi carico del fatto che quest'ultimo non gravi sulle spalle altrui. Deve almeno trovargli un lavoro e recuperargli un'abitazione. 

Per Hoppe il problema dell'immigrazione sarà tanto meno grave quanto più si riuscirà a ridurre l'area della proprietà pubblica. Se la maggior parte dei beni sono privati e i servizi vengono per lo più finanziati da coloro che ne fanno suo, i rischi di essere vittime di un processo di parassitismo generalizzato calano notevolmente. Quanti oggi si lamentano dell'immigrazione sottolineano spesso che i cittadini stranieri ottengono abitazioni o sussidi che vengono invece negati ai locali: ma una società sempre più liberale, con una presenza pubblica ridotta al minimo, eliminerebbe alla radice tale problema. 

Questo, però, non basta. Hoppe sa bene che l'immigrazione può essere anche accompagnata da fenomeni di criminalità ed essere comunque un fattore di disordine. Per questo egli propone che ogni immigrato debba ottenere, prima del suo arrivo in un paese sviluppato, un vero e proprio invito da parte di un'impresa, di un'associazione o di un privato cittadino. Chi chiama uno straniero, però, deve accettare due impegni: quello di sostenere privatamente l'immigrato in tutte le sue esigenze primarie (dato che egli sarà escluso dai servizi finanziati dal settore pubblico); e quello di assumere la piena responsabilità legale per le azioni compiute dal suo ospite durante tutto il periodo di permanenza. 

Un'azienda bisognosa di manodopera, allora, può anche invitare lavoratori extra-comunitari, ma deve accuratamente preoccuparsi che si tratti di persone corrette e deve assicurare loro un reddito adeguato e una sistemazione abitativa (oltre che assistenza sanitaria, istruzione per i figli e così via). Deve scomparire, in altri termini, l'immigrazione allo sbando e assistita che abbiamo di fronte agli occhi e che oggi è facile preda della criminalità. 

È del tutto evidente che un tale sistema di immigrazione ad invito prevede l'espulsione immediata di chiunque non rispetti gli impegni presi. Così come è chiaro che il residente straniero deve essere costretto a lasciare il paese ospitante nel momento in cui chi l'ha invitato rinuncia ad ogni responsabilità precedentemente assunta e nessun altro cittadino accetta di assumerla. 

Anche in merito alla questione della cittadinanza, Hoppe sottolinea come il requisito principale (ma non necessariamente il solo) al pieno ingresso nella comunità sia la proprietà di un'abitazione. Lo studioso, in queste pagine, richiama il caso svizzero e ha parole di elogio per il modo in cui la Confederazione gestisce questo problema. Anche se perfino la politica elvetica in materia gli appare troppo lassista, egli rileva che essa è comunque migliore di quella americana dato che "è relativamente più difficile fare il proprio ingresso in Svizzera senza invito, è più difficile rimanervi da stranieri non richiesti, è estremamente più difficile per uno straniero ottenere la cittadinanza, e la distinzione giuridica tra cittadini residenti e residenti stranieri è chiaramente definita". 

La prospettiva di Hoppe, insomma, è integralmente liberale e lontanissima da ogni forma di razzismo o intolleranza nazionalista, ma propone ugualmente una politica molto ferma in materia di immigrazione, dato che tale riflessione muove da una seria preoccupazione per i diritti dei singoli e per l'esigenza di salvaguardare quanto essi hanno costruito. Egli sottolinea chiaramente, insomma, che quella sorta di giardino che è la federazione svizzera perderebbe rapidamente ogni bellezza e smarrirebbe ogni civiltà se permettesse a chiunque di entrarvi e godere di quei beni collettivi. 

È il carattere quasi condominiale (e quindi sostanzialmente privatistico) dei cantoni e dei comuni elvetici, insomma, che giustifica il successo di questo paese tanto ricco e ben organizzato, anche se privo di una comune identità etnica e linguistica.

        Carlo Lottieri

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