11 settembre 2001 - Attacco terroristico agli USA

vignette di Forattini, tratte da La stampa

Combattere il terrorismo. Con ogni mezzo
di Vittorio Mathieu

Il terrorismo va stroncato. Non ho trovato un solo commentatore che dicesse che va rispettato. Anche coloro che, in Pakistan e altrove sostengono che i talebani devono essere protetti, lo sostengono perché escludono che siano terroristi. Terroristi sono gli Stati Uniti, lo ha detto Bin Laden, e appunto il loro terrorismo va stroncato.

Si tratta però di vedere con che mezzo. E qui i “distinguo” si affollano. C’è chi dice “con ogni mezzo”, o “con ogni mezzo legittimo”, o “con ogni mezzo che non sia la guerra”. Traendo le conseguenze si dovrebbe concludere: con mezzi non violenti. Con la persuasione? Con le prediche? Con l’ascesi? Con le caramelle, cioè elargendo finanziamenti a chi potrebbe cadere in tentazione? L’onorevole Bertinotti ha indicato la via più corretta: attraverso l’ONU. L’ONU dovrebbe occuparsi del terrorismo. Ma questo lo ha già fatto. Si tratta di trovare i mezzi per rendere esecutiva la sentenza. E questi mezzi, di nuovo, in che cosa consisteranno? In dichiarazioni, risoluzioni, messaggi, invio di predicatori, finanziamenti agli intellettuali perché spieghino che guerra santa non vuol dire terrorismo?

Siamo seri: il solo mezzo per persuadere musulmani e non musulmani che il Corano vuole la diffusione dell’Islam con mezzi non terroristici è colpire con la massima violenza coloro che cercano di diffonderlo con mezzi terroristici. E poi concludere, riuscita l’operazione: “Così è scritto: Allah è grande”. I musulmani si persuaderanno che Allah – che è grande in ogni caso – non vuole il terrorismo quando i terroristi saranno sterminati.

tratto da Ideazione.com, 8 ottobre 2001

Non c’è posto per l’Onu
di Michael Ledeen

Una volta ho frequentato un corso di filosofia particolarmente difficile, nel quale le domande poste erano così complicate che era difficile sapere persino da dove iniziare a pensare. Per fortuna in quella classe c’era uno studente che sbagliava sempre, una specie di pietra filosofale al contrario, e gli eravamo tutti molto grati. Qualsiasi cosa dicesse poteva essere scartata, limitando, così, l’universo delle risposte corrette. Così è con il segretario generale delle nazioni Unite, Kofi Annan. Egli governa una delle burocrazie più corrotte del mondo (una volta un capo di stato mi spiegò che mandava alle Nazioni unite solo quelle persone che, altrimenti, avrebbero creato problemi a casa), che regolarmente emette “rapporti” diffamatori basati in gran parte su voci (un mio caro amico recentemente è stato infangato da uno di questi, che accusava il pover’uomo di contrabbando di diamanti e di riciclaggio di denaro sporco), dirotta notevoli somme di denaro a despoti, organizza conferenze internazionali per promuovere l’antisemitismo e approfitta dell’ospitalità americana, contrastando o sabotando, allo stesso tempo, la politica americana con monotona regolarità.

Dobbiamo essere tutti grati al New York Times, una volta conosciuto come il giornale della testimonianza e oggi come il giornale del lamento, per aver pubblicato venerdì l’appello di Kofi Annan, che chiedeva che gli fosse affidato il controllo della nostra guerra contro il terrorismo. “Questo è un attacco a tutta l’umanità”, ci dice “e tutta l’umanità ha interesse a sconfiggere le forze che vi sono dietro.” Sbagliato sotto tutti gli aspetti. E’ stato un attacco contro gli Stati Uniti e una bella parte dell’umanità l’ha festeggiato, e una parte dell’umanità ha interesse a sconfiggerci, perché sostiene le forze che vi erano dietro. E sbagliato anche perché se vi sono “forze dietro” allora per definizione “tutta l’umanità” non può volerle distruggere. Poi continua. “Le nazioni Unite sono le uniche nella posizione di promuovere questo sforzo”. Difficilmente, visto che l’Onu ha sponsorizzato la disgustosa conferenza di Durban e Kofi Annan era in prima linea. Ci dice che la nostra risposta ai terroristi non deve “spezzare l’unità dell’11 settembre” e poi arriva al vero punto: “... vi sono nemici comuni a tutte le società... non sono mai definiti dalla religione o dalla discendenza nazionale. Nessun popolo, nessuna regione e nessuna religione dovrebbe diventare un bersaglio a causa di indicibili azioni individuali... Il terrorismo minaccia ogni società...”.

In breve, fa da copertura agli stati del terrore. Non dovremmo colpire l’Irak, l’Iran, la Siria, la Libia e nessuno degli altri paesi che hanno reso possibile la rete del terrore. Dovremmo arrestare i terroristi e poi, grazie alle convenzioni sull’estradizione dell’Onu, processarli, lasciando Saddam e gli altri liberi di reclutare nuovi assassini. Ma Kofi Annan ha vocazioni “più alte”: dobbiamo eliminare le “condizioni che permettono la crescita di tale odio... dobbiamo affrontare la violenza, la l’intolleranza e l’odio in maniera ancora più risoluta. Il lavoro delle Nazioni Unite deve continuare, indirizzandosi ai mali del conflitto, dell’ignoranza, della povertà e della malattia”. Non si può eliminare il terrorismo, se non si affrontano i “motivi che sono alla sua radice”. Per coincidenza, questo è esattamente quello che dicono i terroristi. E, immagino, è un’ennesima prova dell’infallibile ostinazione nell’errore di Kofi Annan e dobbiamo ringraziare la nostra buona stella che il presidente Bush non abbia ancora menzionato l’Onu nella nostra guerra contro i terroristi. Spero che qualcuno ne faccia menzione al segretario di stato.

tratto da Ideazione.com, tradotto da Barbara Mennitti, pubblicato su National Review

Twin Towers: In Memoriam

di Alberto Mingardi

tratto da Libero, 15 settembre 2001

L'immagine delle due torri gemelle di Manhattan, che crollano rovinosamente al suolo, che collassano in un tonfo impietoso, è qualcosa che non dimenticheremo facilmente. Adesso le nostre certezze si trascinano, stanche, alla ricerca di un nemico e di un colpevole - ma neppure la testa di Bin Laden, servita su un piatto d'argento all'inquilino della Casa Bianca, potrà ridarci quel che abbiamo perduto.

Non solo in termini di vite umane - anche se il bilancio è stato crudele, scioccante, scandaloso. Sono numeri che fanno orrore.

E' stato spazzato via un simbolo, ci hanno rubato un capitolo del nostro romanzo, abbiamo perso una testimonianza della nostra civilizzazione. Non so quanti dei nostri lettori abbiano vissuto l'esperienza, incredibile, di salire in cima a una delle Twin Towers. Cerco di raccontarvela io: arrivati a colpi di ascensore al centodecimo piano, milletrecento piedi sopra la città, potevate abbracciare cinquantacinque miglia d'America, sbirciare oltre i confini infiniti di New York, agguantare uno scampolo di cielo.

I grattacieli stanno agli States come i Fori a Roma. Qualcuno potrebbe storcere il naso, dire che il paragone non regge - ma regge, eccome. Sono tappe diverse della nostra storia: sensibilità, gusto, amori e sapori cambiano con il tempo. Ma ciò che resta è la grandezza dell'umanità, questo nostro superare puntualmente i nostri limiti, questo spingerci costantemente là “dove nessun uomo è mai giunto prima” - che è il leitmotiv di una serie televisiva made in Usa, ma alla fin fine siamo noi, nel nostro profilo migliore, vestiti con l'abito buono.

Le Twin Towers stavano lì a ricordarcelo, un monumento a noi stessi. Non è un caso che fossero state costruite senza un dollaro di provenienza governativa, senza un cent targato “Stati Uniti d'America”. Erano l'altare su cui si celebravano le messe e i riti non dello Stato ma della società americana, di quel magmatico complesso di individui che, ognuno per conto suo, ognuno badando al suo particulare, finisce per comporre inconsapevolmente un mosaico magnifico. Chiamatelo civiltà occidentale, chiamatelo libero mercato, chiamatelo Pippo, Pluto o Topolino - poco importa.

Fatto sta che le Torri gemelle rappresentavano, meglio: incarnavano, più di qualsiasi altro edificio, più di qualsiasi altro luogo, questa realtà. Erano un simbolo di pace: gli uomini e le donne che, dalle prime luci dell'alba sino a tarda sera, le “abitavano”, erano alcuni dei veri eroi della nostra epoca. Dei nostri autentici benefattori.

Ce li dimenticheremo, nascondendoli dietro un numero, perché dopotutto erano facce a noi ignote, e c'interessa solo il bilancio delle vittime, questo vomitare cifre per dare un senso all'orrore. Ma quelle persone erano gli architetti del grandioso disegno di prosperità e pace che negli ultimi anni s'è dispiegato, inesorabile e imprevisto, sotto i nostri occhi. Il suo nome, pronunciato da alcuni con disgusto, da altri con noncuranza, ma da pochi con la devozione e il rispetto che merita, è: globalizzazione.

Le improvvisate carovane di mercanti nel Nepal, i pescatori guardinghi che battono le coste cinesi, le catene di montaggio logaritmiche del Midwest americano - sembra che non abbiano in comune niente, che siano frammenti di realtà destinati a non capirsi, a non comunicare. Gli eroi silenziosi della globalizzazione hanno rivoluzionato la nostra epoca, laddove c'era l'abisso si sono inventati un dialogo, ci hanno messi l'uno innanzi all'altro, ci hanno restituito (dopo il “secolo del male”) la nostra umanità.

Certo, guadagnavano bene, facevano profitti. Ma questo lavoro, inestimabile, ha ricevuto solo un'approvazione singhiozzante e estemporanea dal resto del pianeta. Qualcuno s'è inventato la lotta di classe, qualcun'altro ha marciato sulla natura diabolica del profitto, altri hanno coltivato le loro ambizioni di controllo e di potenza a spese della nostra libertà. E ideologi, politici, attivisti che sparano sulla globalizzazione si rivelano inesorabilmente più popolari e più amati di chi invece che sparlarne, giorno per giorno, la costruisce.

L’altro giorno sulla “Stampa”, con la sua prosa sapida e cubista, Massimo Gramellini ha tessuto le lodi, in controluce, di una cultura, quella islamica, che non conoscerebbe la schiavitù dei beni materiali. Sarebbe facile ribattergli che la vita umana, dopotutto, è il bene più “materiale” che ci sia.

La verità è che senza il capitalismo, senza quest'ossessione del progresso materiale, senza la forza rivoluzionaria del libero mercato oggi staremmo ancora a trastullarci con il carro e la ruota - oppure saremmo ridotti a protagonisti di una guerra continua. Come Benjamin Constant e Ludwig von Mises c'insegnano, una delle più straordinarie conquiste della libertà economica è il suo sottrarre spazio alla lotta armata, ridurre la guerra a una parentesi della nostra esistenza.

Gli inquilini operosi del World Trade Center facevano il possibile perchè quella parentesi fosse presto, definitivamente, chiusa. L'undici settembre ha ricordato al mondo che siamo nel mezzo di uno scontro delle civiltà, ma l'esperienza dimostra che questa è una battaglia che non si vince con le bombe. Lo strapotere militare occidentale non è in discussione - ma nelle aule d'università, nei convegni scientifici, nelle stanze dei bottoni da anni ci viene insegnato a spergiurare la nostra cultura, a dimenticare le ragioni del nostro essere, a sputare sul perchè del nostro progresso.

La Nato, anche volendo, non può farci nulla, lo scontro delle civiltà è una partita che si gioca su un altro terreno: possiamo vincere solo tenendo alta quella fiaccola che gli infaticabili globalizzatori delle Twin towers consegnano, idealmente, a tutti noi. La fiaccola della libertà. 

MA LA NATO C’E’ ANCORA?

di ANDREA BONANNI
A poco meno di un mese dal massacro dell’11 settembre Osama Bin Laden è ancora libero, i talebani sono ancora al potere, il Pentagono, sebbene colpito, lavora a pieno ritmo, la Borsa di Wall Street ha ripreso a funzionare. L’unica istituzione che appare già oggi trasformata in modo radicale e forse irrevocabile è la Nato, quasi che i kamikaze islamici si fossero schiantati non su Washington e New York ma su Bruxelles. Quando il presidente russo Vladimir Putin dice che Mosca potrebbe addirittura essere interessata a entrare nell’Alleanza atlantica perché questa «sta diventando un’organizzazione sempre più politica e sempre meno militare» non fa una battuta: constata una verità e allo stesso tempo lancia un segnale preciso. La più potente macchina bellica che il mondo abbia mai conosciuto, ormai sembra non impressionare più nessuno: neppure il lillipuziano governo macedone, che prima chiama la Nato a disarmare la guerriglia albanese e poi le intima lo sfratto come fosse un servizio di metronotte, da disdire quando non serve più.
Strano destino, quello dell’Alleanza. Nata per contrastare il dispositivo militare sovietico, è rimasta potentissima e immobile per oltre quarant’anni. Vinta senza sparare un colpo la guerra fredda, quando ormai il suo nemico era scomparso, ha cominciato a muoversi e a combattere: prima in Bosnia, poi in Kosovo. E ora, proprio nel momento in cui per la prima volta dopo mezzo secolo fa scattare la clausola di mutua assistenza collettiva, quell’articolo 5 che avrebbe dovuto scatenare l’Apocalisse, sembra sull’orlo di dissolversi nel nulla.
La guerra al terrorismo, la prima guerra globale, se non mondiale, di questo secolo, non si combatterà da Bruxelles. Questo è ormai chiaro. Al comando supremo alleato di Mons, che avrebbe dovuto fermare l’avanzata dei carri sovietici in Europa e che ha effettivamente coordinato i bombardamenti sui Balcani, toccherà tutt’al più di dirigere il traffico che dagli Stati Uniti porterà uomini e mezzi in Asia attraverso le basi europee. E le istituzioni dell’Ue stanno ancora discutendo una direttiva sul congelamento dei beni dei terroristi che copia peraltro pedissequamente quella varata da Bush il 24 settembre. Quanto alla lista di «aiuti» che gli Stati Uniti hanno chiesto alla Nato dopo aver fatto scattare l’articolo 5 è talmente risibile da risultare quasi offensiva.
Il fatto è che Washington, dopo aver incassato il doveroso atto di solidarietà da parte dell’Alleanza, i partner operativi se li cerca dove e come vuole. E quei governi europei che hanno ritenuto di muoversi concretamente in aiuto degli Stati Uniti, come la Gran Bretagna, non hanno certo aspettato le risoluzioni della Nato per farlo. Né, peraltro, hanno discusso le loro decisioni in sede Ue, dove pure dovrebbe essere concertata la «politica estera e di sicurezza comune».
Ha certamente ragione il ministro Antonio Martino, quando spiega che la Nato sta attraversando una profonda evoluzione: da alleanza centrata sulla difesa a organizzazione che ha come obiettivo la sicurezza. Ed è vero che i primi passi in questa direzione si sono compiuti proprio con gli interventi in Bosnia e Kosovo, quando non era in discussione la difesa dell’Europa ma, appunto, la sua sicurezza e la sua stabilità.
Tuttavia l’accelerazione del processo che è stata impressa dall’attacco terroristico dell’11 settembre pone nuovi interrogativi.
Davvero la Nato sta diventando sempre più una organizzazione politica, o, nel migliore dei casi, un doppione più agguerrito dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), come insinua Putin? E se così è, chi ne ha veramente bisogno? Non l’America, come si è visto in queste settimane. E forse neppure l’Europa che, a differenza della Gran Bretagna, ha clamorosamente fallito l’obiettivo di porsi come partner strategico degli Stati Uniti nel gestire la più grave crisi planetaria degli ultimi decenni. Di certo, mentre gli americani continuano a scavare tra le macerie reali delle Torri gemelle, gli europei farebbero bene a concentrarsi per salvare il salvabile dalle macerie politiche tra cui si aggirano forse senza rendersene ancora pienamente conto.

tratto da Il Corriere della Sera

L'eresia libertaria: i cittadini si difendano da soli

di Carlo Stagnaro

Dopo l'11 settembre molte cose sono cambiate. Tutto ha un gusto, un sapore, un odore diverso. La gente ha paura. Inutile nasconderselo. E la paura, si sa, è la migliore amica dell'incoscienza. Il timore di nuovi attacchi terroristici ha spinto molte persone a chiedere protezione al governo. E l'unica moneta che questi sia disposto ad accettare in cambio è la libertà. Libertà in cambio di sicurezza - temporanea, illusoria. Sembra un buon baratto. Sembra. Anche se nelle orecchie continua a risuonare l'antico monito di Benjamin Franklin: "Colui che è pronto a scambiare la libertà con la sicurezza, non merita né l'una né l'altra". Fortunatamente, le sirene dello statalismo non sono invincibili. Molti sanno come combatterle. Prendete Daniel New, per esempio, instancabile attivista conservatore, ha recentemente scritto: "Dobbiamo dichiarare guerra ai terroristi, e il modo più economico ed efficace di farlo è incoraggiare tutti gli uomini ad armarsi, ad addestrarsi nell'uso delle armi, a munire ogni casa di un fucile e di una pistola per l'auto-difesa, e a insegnare a maneggiare le armi ai bambini, a partire dall'età di sei anni. Ecco come una nazione può farsi conoscere per i suoi bassi livelli di crimine e per la sua rapida capacità di rispondere al terrorismo e alla tirannia". 

Il bello è che New non è il solo a pensarla così. L'America è un grande paese proprio per questo: perché i suoi anticorpi non nascono dal governo. Perché i suoi cittadini non sono una massa di straccioni, sempre pronti a prostrarsi e mendicare spazio sotto l'ombrello dello stato. Guy Smith, autore di "Gun Facts", esorta i suoi e i nostri concittadini a rimboccarsi le maniche, ad assumersi la responsabilità di badare a se stessi, a non delegare ciò che ogni individuo che si rispetti dovrebbe custodire gelosamente. Ecco allora i tre passi che egli suggerisce di compiere. Primo: far approvare in tutti gli stati americani leggi che permettano il porto occultato di armi da fuoco. Laddove questo è accaduto, la criminalità ha subito un calo, perché i cittadini onesti hanno approfittato dell'occasione e finalmente hanno ottenuto il permesso di difendersi. D'altronde, è proprio questo l'argomento della più corposa ricerca svolta negli Stati Uniti: quella pubblicata da John Lott con il significativo titolo di "More Guns, Less Crime". Secondo: permettere ai cittadini di detenere armi militari. In questo senso, può essere utile citare Jeffrey Snyder. Molti desiderano privare i comuni mortali delle armi militari, egli sostiene, ma ben pochi chiedono le stesse misure per la polizia. Come mai? "Il bando alle armi d'assalto - è la risposta del saggista newyorkese - non rappresenta un progresso né criminologico né morale, ma l'irresponsabilità e la mancanza di quella fede e fiducia nei nostri concittadini che è, in fin dei conti, ciò che intendiamo per comunità. Il bando è sbagliato non solo perché priva gli innocenti della loro libertà, ma anche perché è un voto di sfiducia verso il carattere della gente". Terzo: esportare il secondo Emendamento, ovvero la norma della Costituzione americana che tutela il diritto di portare armi. Oggi, infatti, la maggior parte degli stati impedisce o limita tale possibilità. Non bisogna, insomma, imporre la propria idea di libertà all'universo mondo; piuttosto, è necessario aiutare quanti, nei propri paesi, si battono per riconquistare quegli spazi di libertà che lo stato ha sottratto ai cittadini.

L'America è stata vittima, poche settimane fa, del più grave attentato terroristico della storia. Eppure questi terroristi hanno ucciso molte meno persone del più sfigato degli stati nella più sfigata delle guerre. Il paese a stelle e strisce ha mostrato di saper cadere in piedi, e di avere una fortissima carica che deriva proprio dalla libertà dei suoi cittadini. Chiediamoci: se fosse successo a noi, come sarebbe andata a finire? Ci staremmo preparando a una risposta decisa e giusta, ci staremmo prendendo le nostre responsabilità, individuali e collettive? Oppure staremmo piangendo scompostamente, implorando qualcun altro di scatenare una guerra idiota, pregando il governo di aumentare le tasse ma intensificare i controlli? La risposta a questa domanda può dirci se nel nostro futuro c'è la libertà o il suo contrario.

8 ottobre 2001, tratto da Ideazione.com

Huntington letto per davvero


di Stefano Magni

Anche se in Europa Huntington e i suoi studi vengono sempre considerati un punto di riferimento negativo, o al massimo l'oscura profezia di un paranoico, cerchiamo di capire l'attuale situazione internazionale, dopo gli eventi dell'11 settembre, alla luce dell'ormai citatissimo - ma come spesso accade poco letto - "Lo scontro delle civiltà" (in Italia pubblicato da Garzanti e ora disponibile in edizione economica a 25mila lire).

Tale scontro, secondo Huntington, deriva dal differente rapporto fra religione e istituzioni politiche in Occidente e nel mondo islamico: l'Occidente è caratterizzato dalla separazione fra stato e chiesa ed è questo il motivo fondamentale dello sviluppo della libertà individuale in Occidente; nel mondo islamico, la religione e la politica si fondono in una visione universalista: la legge islamica deve dominare ovunque nel mondo, anche con la forza. Il fenomeno politico dell'espansionismo islamico è diventato evidente dopo la rivoluzione di Khomeini del 1979 e si è affermato come corrente trasversale in tutto il mondo musulmano man mano che altri modelli (quello comunista sovietico, soprattutto) cessavano di costituire un punto di riferimento per gli stati arabi. E' l'espansionismo dell'Islam, secondo Huntington, la matrice principale di tutti i conflitti post-Guerra Fredda. La nuova linea di tensione ("faglia" nei termini del professore di Harvard) è il lungo confine del mondo islamico. Negli anni Novanta, due guerre nei Balcani (Bosnia e Kossovo, oltre alla tensione in Macedonia), il riaccendersi della guerriglia ai confini di Israele, la guerra in Cecenia e in Tadjikistan, la tensione nucleare fra Pakistan e India, la guerriglia nello Xinjang, la repressione a Timor Est, la guerriglia nelle Filippine, il continuo massacro dei cristiani nel Sudan, tanto per citare i casi più noti all'opinione pubblica, dimostrano drammaticamente che Huntington non aveva torto: tutti i confini dell'Islam sono insanguinati.

Non serve rimproverare a Huntington di essere troppo grossolano nelle sue analisi e di non considerare le differenze, anche notevoli, che esistono fra paesi islamici e che in questi giorni si stanno evidenziando. La grande onda islamica, quella che Huntington analizza, è un fenomeno di lungo periodo, rintracciabile anche in queste settimane se si effettua un'analisi comparativa del comportamento dei paesi arabi oggi e dieci anni fa. Allora, in occasione della Guerra del Golfo, Bush senior mise in piedi una coalizione di stati islamici, estesa a quasi tutti i paesi della Lega Araba, senza incontrare opposizione e in brevissimo tempo. Ora, a tre settimane dall'11 settembre, il massimo a cui può aspirare suo figlio è la benevola neutralità di quegli stessi paesi, nonostante la fortissima ostilità anti-americana delle loro popolazioni. Né serve, per demolire l'analisi di lungo periodo di Huntington, puntualizzare che questi attentati sono strumentali a una lotta di potere interna all'Arabia Saudita: l'ostilità nei confronti dell'Occidente di chi ha scatenato questa lotta di potere è fin troppo evidente, soprattutto dopo l'11 settembre.

Il rimprovero a Huntington di essere un imperialista è dovuto solo a una cattiva lettura dei suoi testi. Ciò che il professore di Harvard suggerisce è una strenua difesa dei confini dell'Occidente (gli avamposti dei quali, nel caso del confine con l'Islam, sono l'Europa mediterranea, la Turchia e Israele), non una loro espansione. Difesa che permetterebbe una migliore convivenza fra civiltà, ma che può diventare possibile solo se prendiamo atto che la differenza fra civiltà esiste. Già il tentativo di mettere in piedi una generica coalizione "anti-terroristica", che comprenda anche paesi islamici per installare basi militari sui loro territori, può essere controproducente, da questo punto di vista. L'unica cosa che effettivamente si può rimproverare a Huntington, semmai, è il suo pessimismo estremo nei confronti di una possibile "occidentalizzazione" del mondo islamico. Uno stato laico, di tipo occidentale, tuttora regge in Turchia e spinte occidentalizzanti resistono in tutti i paesi islamici. Si spera che il professore di Harvard si sbagli a considerare definitivamente sconfitta questa tendenza.

8 ottobre 2001, tratto da Ideazione.com

  Le libertà digitali restino fuori dall’emergenza

    di Carlo Stagnaro

   tratto da Ideazione.com

La guerra è la salute dello stato. Nella storia, ai grandi movimenti bellici corrispondono sempre sottrazioni di libertà ed espansione degli apparati pubblici. Naturalmente, tutti i provvedimenti sono presentati come “temporanei” o “di emergenza”; puntualmente, però, essi diventano la regola immutabile. Anche in questo tragico frangente, la minaccia di restrizioni alla libertà di espressione si è affacciata come soluzione a breve termine al problema del terrorismo. E’ evidente che, in un quadro estremamente complesso, molti occhi si concentrano su Internet e - c’è da crederlo - i falchi del totalitarismo tenteranno di sfruttare al massimo il momento per introdurre regolamentazioni, censure, divieti. E’ un bene, allora, che il presidente americano sia un Repubblicano; tutti i periodici “di area”, infatti, si sono affrettati a stabilire che “il Bill of Rights non si tocca”. Sono molti, insomma, a chiedere estrema moderazione e rispetto della libertà individuale; non è punendo i cittadini onesti che si impedisce ai terroristi di agire. Come osserva Dave Kopel, “le attuali leggi consentono già di esercitare una stretta sorveglianza [sulle email e sulla rete], purché vi sia un preciso mandato. Non vi è alcun bisogno di abbandonare tale requisito”. A fargli eco è Lew Rockwell: “Cosa deve fare il governo in tempi di crisi, allora? Di meno, non di più”.

Se dunque l’America mostra di avere gli anticorpi necessari per almeno tentare una resistenza all’ondata statalista, purtroppo in Italia le cose sono più difficili. Il colonnello Rapetto ha recentemente citato Napster come possibile mezzo di comunicazioni criptate (attraverso tecniche steganografiche, ovvero nascondendo i messaggi dentro immagini apparentemente innocue) tra i terroristi. Alessandro Luciano, Commissario dell’Autorità per le garanzie nella comunicazione italiana, ha sostenuto che anche a Internet deve essere applicata “la necessità di restrizione di alcuni diritti e libertà fondamentali, propriamente giustificata e proporzionata in relazione a obiettivi di pubblica sicurezza”. Ora, le dichiarazioni di Rapetto sono presto smentite da un recentissimo studio di Niels Provos e Peter Honeyman dell'Università del Michigan. “Seguendo le indicazioni di stampa che affermavano l'esistenza di messaggi nascosti dei terroristi dentro files grafici su eBay - ha scritto Massimo Mantellini - hanno analizzato due milioni di immagini scaricate dal sito di aste americano. Due milioni, non qualche centinaio. Si tratta di un lavoro accurato, liberamente accessibile online che per qualche strana ragione trova poca eco sui giornali americani che in questi giorni si occupano di steganografia: eppure si tratta di uno studio recentissimo (31 agosto 2001) e di grande attualità. Con un piccolo difetto: dentro le due milioni di immagini scaricate da ebay, Provos e Honeyman non hanno trovato alcun messaggio nascosto”.

Più insidiose sono le parole di Luciano. Egli, in sostanza, presenta Internet come mezzo di comunicazione privilegiato dei terroristi. Indubbiamente, questi possono aver utilizzato l’email (e anche la posta normale, il telefono, il fax, il telegrafo, i segnali di fumo…). Tuttavia, questa non è una buona ragione per porre pesanti limitazioni alla rete tutta, ovvero ai milioni di cittadini onesti che la utilizzano per diffondere e ricevere informazioni. Ammonisce Paolo De Andreis: “Si rifletta dunque su come ostacolare i terroristi e le azioni di inconcepibile violenza di cui hanno dimostrato di essere capaci ma nel segno di quanto ha indicato uno dei più saggi “padri” di Internet, Vint Cerf: si punti sulle libertà di internet, perché da lì viene una forza travolgente. Una forza di cui in questo momento nessuno può fare a meno”.

Non bisogna in alcun modo permettere che la guerra fornisca la giustificazione ai politici per sottrarre la libertà ai cittadini. I diritti individuali meritano di essere difesi: dai terroristi privati come dai professionisti dell’anti-terrorismo. Anche perché, spesso, nel calderone delle leggi “eccezionali” vengono mescolati strumenti punitivi che prima si era tentato, invano, di approvare secondo le procedure ordinarie. Soprattutto, bisogna impedire che gli stati allunghino le proprie mani sulla rete. Questo terreno non è loro, su di esso non possono vantare alcun diritto. Essi, “stanchi giganti di carne e acciaio”, hanno costruito un mondo intriso di sangue, e hanno cinicamente perseguito la guerra per ingrandire i propri poteri e il proprio dominio. Ora tentano, altrettanto cinicamente, di distruggere Internet, perché non possono controllarla. “Questi provvedimenti sempre più ostili e coloniali - recita la famosa Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio di John Perry Barlow - ci mettono nella stessa posizione di quei precedenti amanti della libertà e dell'autodeterminazione che hanno dovuto rifiutare le autorità di poteri distanti e disinformati. Dobbiamo dichiarare le nostre identità virtuali immuni alla vostra sovranità, pur continuando a consentirvi di governare sui nostri corpi. Ci diffonderemo attraverso il pianeta così che nessuno potrà arrestare i nostri pensieri. Noi creeremo una civiltà della mente nel ciberspazio. Possa essa essere più umana e onesta del mondo che i vostri governi hanno prodotto in precedenza”.

IL CASTELLO DELLE IPOCRISIE

di Angelo Panebianco

tratto da Il Corriere della Sera

E se fosse proprio la vecchia, cinica Europa (Gran Bretagna esclusa), piuttosto che questo o quel Paese islamico, a sganciarsi per prima, a sfilarsi a poco a poco dalla grande coalizione messa in piedi dagli Stati Uniti contro l’islamismo radicale, allo scopo di cercare, nei prossimi anni, la via dell’ appeasement e della resa? Lo pensavo mentre leggevo Oriana Fallaci e, riflettendo sulle più probabili reazioni alle sue parole, mi appariva chiaro che c’è una parte, certamente ampia, forse persino maggioritaria, dell’opinione pubblica europeo-continentale che non può proprio sopportare l’idea di essere messa di fronte alla necessità di scelte nette, radicali. Dello scritto della Fallaci si può pensare qualunque cosa, lo si può condividere in tutto o in parte, o affatto, ma di sicuro non si può negare che esso è stato, per il nostro Paese almeno, un calcio violentissimo sferrato contro quel castello di ipocrisie dietro cui si nascondono coloro che già oggi, più o meno sotto traccia, lavorano all’ipotesi dello «sganciamento» e dell’ appeasement . Per inciso, conoscendo un po’ i miei polli, penso che la parte di quello scritto risultata più indigeribile per molti di loro non sia tanto quella dedicata all’Islam quanto quella sull’America: quei riferimenti al patriottismo americano, a quegli operai newyorkesi non «irreggimentabili» che se ne infischiano dei sindacati ma guai se gli tocchi la bandiera, alla religione civile americana, che tutti abbiamo visto di colpo risvegliarsi e manifestarsi con potenza dall’11 settembre in poi, all’America, terra della libertà, così come la vollero i Padri fondatori. Troppi pregiudizi antiamericani circolano nelle nostre opinioni pubbliche perché quelle parole non provochino, oltre che adesioni, anche molta repulsione. Ma il vero punto è un altro. Un’Europa, civilissima, raffinatissima, ma anche così indifferente a tutto da non muovere un dito mentre in Bosnia avvenivano i massacri che sappiamo (e che furono alla fine fermati solo dall’intervento dell’America), un’Europa che avrebbe senz’altro permesso a Milosevic di ammazzare tutti i kosovari nessuno escluso se, ancora una volta, l’America non avesse deciso altrimenti, un’Europa siffatta come farà, nella nuova guerra in corso, a «tenere la posizione» a lungo, come farà a restare salda di fronte alle prove che ci attendono? Per farlo, occorrerebbe credere in qualcosa. In che cosa crede l’Europa? Una parte dell’Europa, di sicuro, non crede proprio in niente. Il problema (politico) è capire quanto estesa essa sia.
Se ne sono lette e sentite di tutti i colori in questi giorni a proposito di «civiltà» e di rapporti fra le civiltà. Chi, come me, ha scritto che solo una colossale amnesia storica può rendere tanti europei così inconsapevoli del valore delle loro istituzioni, così ottusi da mettere quelle istituzioni, in omaggio a un malinteso principio di uguaglianza, sullo stesso piano di istituzioni, proprie di altre civiltà, ispirate a principii opposti a quelli che ispirano le nostre, si è sentito rispondere (insulti a parte) molte cose interessanti, ma quasi sempre irrilevanti. Si è sentito rispondere, per esempio, che, quella occidentale a parte, le altre civiltà, a cominciare dalla islamica, esibiscono grande ricchezza culturale (mai Averroè è stato più citato sui giornali che in questi giorni) e grande differenziazione interna. E chi lo ha mai negato, di grazia? E’ insito nell’uso della parola «civiltà» il riferimento a sistemi culturali complessi, di antichissima formazione, che permeano molte società anche assai diverse fra loro, e che subiscono cambiamenti nel tempo. Si è sentito rispondere, ancora, che le civiltà non sono «chiuse» ma sempre aperte all’interscambio reciproco. Che è ancora una volta vero, ma ancora una volta irrilevante.
Si è sentito poi accusare di «determinismo culturale»: come se sostenere che un insieme di istituzioni poste a tutela dell’uguaglianza di fronte alla legge (l’antica idea greca di «isonomia») e di diritti individuali di libertà, e faticosamente affermatesi pur fra tante deviazioni (nazismo e comunismo inclusi) nel corso nella storia, è ciò che distingue il mondo occidentale da altri mondi, debba di per sé configurare l’adesione a una visione deterministica della storia.
Gaffes di Berlusconi a parte, il problema politico che emerge da tutte queste discussioni è chiarissimo. Una parte del mondo occidentale ritiene che i principii inscritti nelle istituzioni occidentali, che regolano, pur fra mille imperfezioni, il nostro modo di vita, e che ispirano le nostre concezioni del mondo, mantengano intatto il loro valore e meritino di essere difesi anche a costo di sfidare dei pericoli. Un’altra parte del mondo occidentale, soprattutto europeo, pencola verso l’indifferenza , quando non l’aperta ostilità, a quei principii e a quelle istituzioni. E’ quella parte di Europa che pensa, anche se ancora non lo dice apertamente, che gli americani «se la sono cercata», che pensa che qualunque compromesso, qualunque annacquamento di principii, sia lecito e doveroso, pur di assicurarci un minimo di sicurezza qui e ora.
Un bel po’ di (dichiarati) «relativisti», di destra e di sinistra, si è assunto oggi la rappresentanza di quella parte dell’opinione pubblica europea che non vuole storie, e che è prontissima a barattare principii (nei quali, del resto, non crede più, o non crede più abbastanza) in cambio di tranquillità. Dietro i loro eleganti discorsi - che iniziano sempre, naturalmente, con l’esecrazione di rito del massacro di New York - si intravvedono bene, in controluce, le posizioni e le «mosse» dei mesi e degli anni a venire.
E’ comprensibile che costoro non comprendano quelli di noi che, per esempio, nutrono una profonda simpatia per quei musulmani che, nei Paesi islamici, vorrebbero ottenere diritti e libertà che oggi non hanno e che, guarda un po’, assomigliano da vicino a quei diritti e a quelle libertà di cui godiamo in Occidente. Quelli di noi che, se mai venisse il momento del confronto, non sarebbero disponibili a fare la scelta dell’ appeasement . Ritenendo che esistano alcuni principii non sacrificabili sull’altare di nessun «dialogo», e in difesa dei quali vale tuttora la pena di correre dei rischi.

Giovedì 20 settembre 2001

L’internazionalismo khomeinista 
come variante del leninismo

di Carlo Panella


Islam: con angoscia vediamo le immagine infernali del gelo lunare di Manhattan e intanto sentiamo che c'è della logica in quella follia e questa logica ci porta all’Islam. Non perché ce la vogliamo portare noi, ma perché si professano islamici gli estimatori della strage di New York e di quelle che l’hanno preceduta. Molte anime belle e candide, soprattutto della sinistra, ci vengono a dire che non è vero, che l’Islam è altro, che le vere cause vanno ricercate in Palestina, che in fondo gli Usa se la sono cercata, che stiamo operando razzismo religioso. Alibi, al solito, non solo per non agire, ma anche per non pensare, anche se, come tutti gli alibi, contengono una verità, ma parziale. Il punto è questo: così come in Russia, nel 1917 il pensiero politico occidentale fece da levatrice della rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, così nel 1979 nell’alveo del pensiero politico islamico, nacque uno scisma che, sotto la guida di Khomeini vinse la rivoluzione in Iran. 

Da allora, da quella formidabile rottura che fu non solo statuale, ma culturale e politica, per centinaia di milioni di fedeli musulmani si aprì la possibilità di “fare come in Iran”, esattamente come per centinaia di milioni di europei negli anni venti si era aperta la prospettiva di “fare come in Russia”. Come Lenin, Khomeini ha costruito un modello nuovo di Stato, ha vinto contro un nemico apparentemente imbattibile; come Lenin, Khomeini ha avuto sin da subito il problema di esportare una rivoluzione che non poteva e non può che essere internazionale. Come Lenin e Trotsky sconfitti davanti a Varsavia, Khomeini ha visto bloccata nelle paludi dell’Irak l’immediato tentativo di esportare la rivoluzione per via statuale, usando degli eserciti, ed è dovuto ripiegare sull’appoggio sfrenato del proselitismo politico, sulla costruzione di “partiti fratelli”. Di converso, paradossalmente, Saddam Hussein ha goduto di questa capacità di contenimento dell’espansione della rivoluzione islamica iraniana, guadagnandoci addirittura la sopravvivenza fisica e politica, anche dopo la rovinoso sconfitta seguita all’invasione del Kuwait. 

In altro contesto, non dissimile fu la ragione che permise a Hitler, sino a tutto il ‘39, di godere di un esplicita simpatia nelle democrazie europee per la sua capacità di ergersi come muro contro l’espansione sovietica e comunista nel continente. Da 22 anni, insomma, nell’alveo culturale e politico dell’Islam -che è un tutt’uno con quello religioso: il termine “laico”, per un musulmano è un non senso o una bestemmia- agisce una formidabile spinta rivoluzionaria che ha infiammato le menti della “Umma”, la comunità dei credenti, e si è espansa a macchia d’olio. Con un di più, rispetto all’esperienza della componente rivoluzionario-comunista vissuta dall’Europa nel 20° secolo: un’estrema duttilità organizzativa. Ultraminoritaria, l’esperienza rivoluzionaria leninista si è da subito arroccata e perpetuata nella rigidità di involucri partitici sclerotici e settari. Non così la proposta rivoluzionaria islamica: forte dell’assenza di una chiesa strutturata e della rete capillare e vivissima delle moschee, il “partito di Dio” si è propagato con la rapidità di un incendio nella prateria, non solo nella componente sciita dominata dalla figura di Khomeini, ma anche in quella sunnita, in tutte le sue ulteriori frantumazioni, inclusa quella wahabita al potere in Arabia Saudita.

Infine, ma solo infine, è arrivata in Palestina, là dove la tradizionale dirigenza dell’Olp (stranamente tutti sembrano oggi dimenticarlo) si è in un primo momento schierata contro la Rivoluzione iraniana (appoggiando Saddam Hussein durante la guerra dall’80 al 90) ed è sempre e comunque stata aconfessionale, di ispirazione socialisteggiante o addirittura di estrazione cristiana, soprattutto nelle sue frange estremistiche e terroristiche del Fplp o del Fdlp di Habbash e Hawatmeh. Ma il disastro non è solo in questa espansione di una corrente rivoluzionaria (peraltro assolutamente scismatica e per alcuni hayatollah iraniani autorevolissimi come Shariat Madari addirittura eresiaca rispetto ai canoni dell’Islam) che attraversa l’Asia e tutto il Magrebh (sino a portare l’Algeria, oltre le soglie della guerra civile).
Il disastro cosmico, che misuriamo nelle strade schiantate di Manhattan è che ancora oggi in Occidente non si è capito che quella Islamica è la prima rivoluzione antioccidentale in espansione sulla scena mondiale. Una rivoluzione che è culturalmente antagonista ai valori dell’occidente e che si arroga il diritto di distruggere non solo idealmente, ma anche materialmente, l’avversario. 

Così come i palestinesi di Hamas -dopo che per decenni lo stesso Arafat l’ha proclamato, salvo poi correggersi in extremis- vogliono ricacciare gli ebrei di Israele a mare, così i rivoluzionari islamici ovunque vincano (in Sudan, in Afganistan o nelle zone che controllano in Indonesia, nelle Filippine o in Algeria) negano -come mai hanno fatto gli stati islamici storici- le altre religioni, anche quelle “del Libro”, l’ebraica e la cristiana, distruggono simboli e persone che rappresentano i valori dell’occidente. Questo è il punto: per la prima volta l’occidente, la cultura dell’occidente, i valori dell’occidente, hanno trovato un antagonista, un antigene, un avversario feroce in uno strano Islam, che ben poco ha a che fare con quello storico (tranne che con la piccola setta degli Ashashin, del Vecchio della montagna che condizionò varie corti di sceicchi a Damasco e Bagdad coi suoi sicari). Un Islam estremo che non coinvolge tutte le centinaia di milioni di musulmani, ma una forte, combattiva, crescente minoranza fra di loro, sino a lambire -e preoccupare- dopo tutte le ex repubbliche sovietiche e la Russia, impantanata nel disastro ceceno, anche la Cina tuttora comunista.

E’ devastante il terrorismo materiale che questo Islam sa sviluppare, ma altrettanto devastante è il terrorismo culturale e ideologico che lo ispira. Con un di più: questo Islam scismatico e rivoluzionario è stato incubato proprio nei due paesi del “terzo mondo” in cui maggiormente l’Occidente ha investito in cultura, in esportazione diffusa di sapere e di valori. Al momento del trionfo della rivoluzione khomeinista centinaia di migliaia erano già gli iraniani laureati nelle migliori università dell’occidente: ad Harvard, Londra, Berlino, Milano. Gli ayatollah di Khomeini hanno quindi immediatamente fuso il contenuto politico antioccidentale del loro Islam con gli altissimi contenuti tecnocratici e tecnologici posseduti da migliaia e migliaia di giovani iraniani che hanno costituito e costituiscono l’ossatura governante della Repubblica islamica. In un altro contesto, una meccanica simile si è sviluppata in Algeria là dove la dirigenza islamica del Fis ha trovato seguito e proseliti soprattutto tra le migliaia di quadri, ingegneri e tecnici formati dalla Francia per l’industria petrolifera e di base.

Le bandiere verdi dell’estremismo islamico sventolano oggi ad Algeri e Teheran sul sepolcro della pia illusione illuministica che vuole che la diffusione del sapere tecnologico occidentale porti con sé, per chissà quali vie, anche la diffusione dei valori culturali, sociali e democratici dell’occidente. Con lenta maturazione e qui -ma solo qui- gioca un ruolo la questione palestinese, un ruolo di accelerazione, non altro, l’Islam khomeinista passa dalle forme di lotta non violente con le quali si è imposto (nessuno lo ricorda, ma nei 15 mesi di rivoluzione islamica Khomeini diede la consegna di subire la morte, mai di darla) alla Jihad, la guerra Santa e poi alla pratica diffusa dell’attentato suicida (paradossalmente mutuata dai propri avversari interni: l’ayatollah Beheshti con metà dei leader iraniani furono uccisi da kamikaze, il successore di Khomeini, Khamenei, è scampato per miracolo, gravemente mutilato, alla stessa fine).

Inarrestabile, la militanza dell’estremismo islamico, fonde anno dopo anno la propria volontà di annientamento della civiltà occidentale, con crescenti capacità tecnologiche per perseguirla. Crescono e si diffondono i gruppi terroristici perché cresce e si diffonde la loro presa di massa, fino a quando non riescono a compiere il grande salto, mai riuscito prima nella storia: far uscire l’atto terroristico dalla marginalità della simbologia colpita e moltiplicarne per mille gli effetti scatenando sul simbolo da annientare una potenza di fuoco pari a quella di un atomica. Straordinario è lo sconcerto di tutti per l’incredibile inefficienza di cui hanno dato prova la Cia e l’Fbi a fronte dei terroristi, ma ancora più straordinario dovrebbe invece essere lo stupore per l’incapacità delle cancellerie occidentali, dal ‘79 in poi di seguire la nascita e l’affermarsi dell’unico “pensiero forte” dopo quello hitleriano, che punta, né più, né meno, alla fine dei nostri valori. 

Questo c’è dietro all’attentato alle Twins Towers. Questo è quello che moltiplica per mille la paura. C’è un’unica scusante a questa paradossale incapacità dell’Occidente addirittura di riconoscere i propri potenziali assassini: il petrolio. Immaginate cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata la storia dell’Europa, se la Russia di cui si impadronì Lenin nel ‘17 fosse stata detentrice del monopolio assoluto del carbone e del ferro in Europa, se tutte le nazioni Europee, per crescere e svilupparsi avessero dovuto comprare carbone e ferro dagli ayatollah del Cremlino, così come tutto il mondo per la propria energia e le proprie materie prime chimiche è costretto a comprare petrolio proprio dai paesi in cui è nata, si è radicata e si si sviluppa l’estremismo islamico. Questo invece deve fare l’occidente: commerciare petrolio con i paesi che incubano forze, sia pure marginali, che vogliono distruggerlo. “Non olet” diciamo tutti da venti anni a questa parte davanti al petrolio e paghiamo fior di migliaia di miliardi o direttamente agli estremisti islamici, o a regimi apparentemente nostri sodali, che però sono corrotti e minati dalla pressione estremista islamica dei loro popoli, tanto che finanziano i vari hezbollah, i vari “partiti di Dio” in mille forme. Oggi ci accorgiamo che le cose sono andate tanto avanti che qualcuno ci ha dichiarato la guerra. Ma non sappiamo neanche chi sia questo qualcuno. Né che guerra sia.

tratto da L'Opinione

Sabato 29 settembre 2001

Il pensiero unico filotalebano
di Dimitri Buffa


Caro direttore, discutere della superiorità dell'Occidente (cristiano, protestante, pagano o ateo) al mondo islamico è trastullo solo per intelletti in perfetta malafede, come quelli di sinistra, o da inutili idioti, come certi destri nostalgici dell'anti anglo-americanismo tipo "perfida Albione" dell' anti semitismo e del corporativismo sociale. Proponiamo allora a Rossana Rossanda o alla Rosy Bindi, nonché alle donne politically correct di destra che strepitano contro la presunta gaffe di Berlusconi, di andare a vivere per qualche giorno, a scelta, tra talebani, sauditi, siriani o iraqeni, perché se ne rendano conto. Scommetto che dopo qualche giorno con il chador a mangiare in una scodella insieme agli altri "animali" non lo troverebbero più così esotico e pittoresco. 

Questa gentarella che guarda dall'alto in basso gli americani grassi che mangiano hamburger e patatine, mentre adora la silhouette perfetta di Osama e dei suoi guerrieri così machi, "belli e impossibili". Sapessi quanti ne ho dovuti sorbire, anche in questi giorni drammatici, nei salotti bene di Roma o nelle cene delle terrazze centrali della capitale, fare simili "discorsi del cazzo". E' tutto un disquisire sulla decadenza dell'America sul comportamento aggressivo di Israele e via dicendo. Confesso che ho amici e conoscenti tra queste persone.
Nessuno è perfetto d'altronde. E il bello è che sono equamente ripartiti tra "Ds politically correct" e "An destra sociale": il leit motiv comune è l'odio verso il mercato, l'America e Berlusconi. 

Perché allora poi stupirsi delle imboscate in Parlamento? Io da parte mia per quieto vivere evito accuratamente di parlare con loro di politica a tavola, perché altrimenti la voglia di buttare il piatto per terra e andarmene via quando sento questi discorsi sarebbe incoercibile..
Mi sento però emarginato quando affermo che secondo me l'Onu non dovrebbe neppure ammettere certi stati al suo interno se questi non dimostrino prima di tenere libere elezioni, di avere un libero mercato e di rispettare i diritti dell'uomo di Helsinky. O se stigmatizzo i paradossi tipo Durban o che vengano espulsi dalla Commissione dei diritti dell'uomo dell'Onu gli Usa, lasciandone così l'egida a Cuba, Sudan, Cina e Birmania. 

Non parliamo poi se si muove l'argomento Israele: vagli a spiegare a sinistri e destri che quella è l'unica democrazia del Medio Oriente. Per loro esiste solo il diritto dei palestinesi (che detto per inciso all'epoca di Mussolini erano alleati di Hitler) che stavano "in quella terra prima di loro". E anche questo non è vero. Detto ciò per una volta nella vita mi è capitato di trovarmi d'accordo persino con Baget Bozzo, l'ex "cappellano della partitocrazia", come lo chiamava Pannella ai tempi di Craxi: i comunisti sono sempre comunisti. E odiano talmente il capitalismo da preferirgli persino l'estremismo islamico, purché rivoluzionario. Qualcuno vada a rileggersi per rendersene conto i titoli trionfalistici di "Lotta Continua" nel 1979, il giorno della cacciata dello Scià da Teheran e del ritorno rivoluzionario dell'ayatollah Khomeini da Parigi. Purtroppo i cervelli di sinistra ( e di buona parte della destra cosiddetta "sociale") sono fatti così e le conseguenze si vedono. Poi dice che uno si rifugia tra i radicali... 

tratto da L'Opinione

 

LA RELIGIONE AGGRESSIVA

di Giordano Bruno Guerri

tratto da il Giornale, Martedì 25 Settembre 2001

Più di quattro anni fa scrissi sul Tempo (mi è buon testimone il direttore di questo giornale, che allora dirigeva il quotidiano di Roma) un articolo che da ogni parte mi venne rinfacciato come "razzista" e "intollerante". Sostenevo - né ho cambiato idea - che l'islamismo è una religione aggressiva e senza rispetto verso gli "infedeli"; e che dunque l'Italia, nell'impossibilità di accogliere tutti gli emigranti che vorrebbero trasferirsi da noi, dovrebbe avere l'accortezza di limitare il più possibile l'accesso dei popoli appartenenti a quella religione. Ebbi solo la consolazione, l'anno scorso, di leggere le dichiarazioni dello stesso tono da parte del cardinale di Bologna Giacomo Biffi, sia pure da un punto di vista più religioso che politico. Su Biffi piombarono le stesse accuse di razzismo e intolleranza, oltre che di fanatismo religioso. Ora che è apparso chiaro da quale parte stia il vero fanatismo, il presule è tornato all'attacco in un silenzio più rispettoso ma ancora lontano dal raccogliere i consensi che meriterebbe. Lascio ai credenti la riflessione al suo richiamo all'obbligo, per un cristiano, di predicare il Vangelo anche ai mussulmani, obbligo che l'attuale politica ecclesiastica lascia cadere in favore di un dialogo purtroppo monodirezionale. E' bene invece che credenti, non credenti, e soprattutto i nostri governanti comincino a riflettere su una realtà che, in quanto tale, non è né tollerante né intollerante, né razzista né antirazzista: visto che in Italia non c'è posto per tutti coloro che vorrebbero venirci a vivere e a lavorare, è un semplice dovere di buongoverno selezionare gli immigrati in base alla loro possibilità di integrarsi presto e bene nella nostra vita sociale. In mancanza di una simile regolamentazione, da noi continueranno a prevalere la vicinanza geografica e soprattutto la prepotenza dei clandestini dell'emigrazione che, non a caso, sono per lo più di religione mussulmana. Come di religione mussulmana sono gli autori di gran parte dei delitti e i protagonisti della nuova criminalità diffusa. (Non risulta che indiani e filippini, per citare soltanto due esempi, abbiano mai creato problemi del genere in Italia.) Senza voler criminalizzare con questo interi popoli, non c'è dubbio che l'aggressività mussulmana, anche quella spicciola, sia destinata a aumentare nel nostro Paese, dopo quello che è accaduto in America e tanto più dopo quello che accadrà nei prossimi giorni, settimane, mesi. Allo stesso modo non c'è dubbio che, in mezzo a tanti lavoratori, fra i musulmani siano arrivati anche terroristi finora (per quanto?) inattivi, e che nel numero dei loro correligionari trovino più o meno consapevole copertura e proseliti. Gli Stati Uniti, che hanno sempre dato prova di tolleranza, certamente prenderanno misure restrittive verso l'afflusso di popolazioni che arrivano con il Corano in mano e spesso - nel cuore - odio e disprezzo verso civiltà che giudicano corrotte, deboli, femminee e da convertire costi quello che costi. Non vedo perché non dovremmo farlo anche noi, centro di una religione ormai pacificata e al centro geografico dell'uragano che si sta per abbattere sul mondo.

Giordano Bruno Guerri

GUERRA E PACE

di Ida Magli

da il Giornale, sabato 15 Settembre 2001

Sentendo i commenti che vengono fatti riguardo all'attacco all’America, ci si rende conto che, malgrado qualche avvertimento sulla necessità di riflettere sul mondo islamico, le interpretazioni sono del tutto inadeguate. Il motivo di questa inadeguatezza nasce in pratica da un solo fattore: il rifiuto dell’Occidente di capire che il proprio modo di vivere, i propri costumi, i propri valori, non soltanto non sono giusti in assoluto, ma non possono essere assunti da altri popoli. I nostri politici, sia in Europa che in America, annegano da anni in un mare di retorica sulla «pace», sull’«uguaglianza», sui «diritti dell’Uomo», con la convinzione che. nessun popolo e nessun individuo possa non essere d’accordo; ma si tratta di una convinzione priva di realtà e comunque dettata, anche se in buona fede, dall’indiscusso primato dell’Occidente. A nulla è servito tutto il sapere degli antropologi, accumulato in secoli di ricerche, sul «punto di vista dell’indigeno», come lo chiamava Franz Boas, indispensabile per capire la realtà della vita dei vari popoli. Se, viceversa, proviamo a mettere in atto il principio del «punto di vista» (sperando che nessuno voglia intenderlo come un tentativo di giustificazione di quello che è successo), dobbiamo per prima cosa smettere di definire con i nostri termini e i nostri concetti le azioni e i valori del mondo islamico.

Primo punto: noi chiamiamo «terrorismo» uccidere «civili», persone «innocenti», e quindi atti nefandi e non ammessi dal «diritto». Nel mondo islamico non esiste differenza fra diritto civile e diritto religioso, per cui chiunque appartenga all’Occidente satanico, nemico di Allah, può e deve essere ucciso.

Secondo punto: non esiste il concetto di un «tempo di pace» perché il fedele di Allah ha l’obbligo di comportarsi sempre come tale, e di lavorare per la vittoria di Allah in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. L’errore gravissimo che da tanto tempo compie l’Occidente è quello di trasferire il concetto di «fanatismo», di «integralismo» al mondo islamico, e di considerare una specie di quello che noi chiamiamo «schegge impazzite», i terroristi. Non sono tali e se non ci sbrighiamo a comprendere e a comportarci di conseguenza, tutta l’Europa sarà presto nelle loro mani.
Come si può credere che esista questo tipo di personaggio hollywoodiano che, essendo un miliardario ha l'hobby di organizzare atti terroristici? Questo è un tipico modo di rappresentazione occidentale, ma possiamo esserne certi - nessuno appare più imbecille di noi agli occhi musulmani. Tutto il mondo islamico lavora da anni per la conquista dell’Occidente, stabilendo la sua base in Europa, sia inviando migliaia di fedeli, organizzandone i viaggi e erigendovi moschee; sia facendo studiare nelle Università europee e americane le proprie classi dirigenti che (se lo metta bene in mente la Chiesa) non soltanto non si convertono mai al cristianesimo, ma viceversa operano con sempre maggiore successo nel convertire i cristiani all’islamismo.

Punto terzo. E ‘da molto tempo, ormai, che gli organizzatori della conquista dell’Occidente fanno in modo che l’attenzione sia tutta concentrata sulla questione palestinese, ma si tratta di un’astuzia, dolorosa quanto si vuole, ma un’astuzia, nella quale sono stati stupidi gli occidentali a cadere. Il problema ebraico sarà drammaticamente più grave quando i musulmani avranno raggiunto il predominio in Europa. E' questo il vero pericolo, e l’Unione europea, con i suoi confini che non esistono, il suo sudorientalismo, il suo favore verso l’Africa, che è già quasi tutta musulmana, ha reso estremamente più facile questo predominio. Chi può pensare che l’esistenza della più grande moschea d’Europa nel quartiere d’elite di Roma, non ne rappresenti già il simbolo concreto?

Punto quarto. Noi ce li rappresentiamo sempre come dei poveri, ma nulla è più sbagliato. I loro Paesi sono ricchissimi, perché possiedono il petrolio e le pietre preziose.
Se non investono le loro ricchezze nel benessere sociale è proprio perché sono tutti d’accordo coni loro governanti nel voler far vincere Maometto, concretamente impadronendosi dell’Europa e, attraverso l’Europa, distruggendo il modo di vivere americano. Siamo noi degli ingenui a pensare che ci invidino. Non ci invidiano affatto, anzi. Vedono con occhi privi del velame occidentale dei poveri maschi imbelli, assillati dalla puntualità e dalla fretta, le cui donne li comandano, li abbandonano, se ne vanno in giro nude come prostitute e gli fanno, quando va bene, un solo figlio; dei vecchi anch’essi abbandonati, nella solitudine e nella tristezza degli ospizi e delle case per anziani...

Dunque, adesso non c’è più tempo. Smettiamola di parlare con tutti la nostra lingua, nella presunzione che debba essere capita e accettata. Viene capita nel solo significato possibile: siamo deboli, privi di difese e dunque conquistabili. Abbiamo addirittura fatto nostro l’inverso del vecchio e sempre valido motto dei Romani: invece del «se vuoi la pace sii pronto alla guerra», diciamo: «Se vuoi la guerra, sii pronto alla pace». Ci siamo arrivati. A forza di parlare di pace, ci troviamo in guerra. L’attacco all’America dimostra che scorrono fiumi di denaro per pagare proseliti, connivenze, spie, traditori, insieme con esperti e strateghi di grandissimo livello. Non sono «martiri», altro termine nostro che non ha nulla a che fare con dei guerrieri: i martiri sono stati soltanto quei primi cristiani che «maravigliavano» il mondo perché rifiutavano le armi, non si difendevano, andavano incontro alla morte senza alzare un dito. Sono combattenti abilissimi, per far fronte ai quali dobbiamo inventarci altri modi di fare la guerra.

TOLLERANTI,
MA NON CON GLI INTOLLERANTI

di Giordano Bruno Guerri

tratto da il Giornale, venerdì 21 Settembre 2001

Ma davvero dobbiamo avere verso l’islamismo, in questo momento storico, una tolleranza che in Occidente non abbiamo avuto neanche verso il cristianesimo? Le Chiese delle crociate, dell’Inquisizione, della Riforma e della Controriforma, delle guerre di religione, dei roghi di libri e di carne umana erano "integraliste", si direbbe oggi, come i musulmani di cui ci lamentiamo tanto e a ragione. Era integralista in particolare, la Chiesa di Roma, perché aveva la volontà, antica e medievale, di sovrapporsi agli Stati, di dettare anche le leggi civili, insomma di fondare tutta la vita e la vita di tutti sui testi sacri e sulle successive interpretazioni teologiche.

In Occidente le religioni cristiane sono state costrette a rinunciare a simili pretese dopo duri scontri culturali, politici, militari e da una serie di grandi fenomeni: la nascita della scienza moderna, che le Chiese giudicarono incompatibile con la religione; la rivoluzione industriale, con gli enormi mutamenti sociali che comportò; l’illuminismo, con la sua critica verso le fedi; la rivoluzione francese, che per la prima volta applicò il modello fideistico alla politica e non all’ultraterreno; la perdita del potere temporale da parte del papato. Di quest’ultimo evento - cioè il Risorgimento, tanto avversato da Pio IX - nel 1961 Giovanni XXIII ringraziò la Provvidenza perché aveva liberato la Chiesa cattolica da un peso terreno che inquinava il suo messaggio religioso, ma anche gli altri eventi accennati hanno avuto l’effetto di separare i percorsi degli Stati da quelli della fede. Niente di simile è accaduto nel mondo musulmano, o è accaduto in modo molto minore e incompleto. Di conseguenza anche quando grandi riformatori – come Ataturk in Turchia - cercarono di europeizzare in senso laico il loro Paese, l’integralismo islamico noh ha mai cessato di rinascere; ed è stato rovesciando una monarchia modernizzante che in Iran si è affermato quell'integralismo che da lì ha ripreso vigore in tutto il mondo musulmano.

L’islamismo insomma non è tanto e soltanto una religione "diversa" dalla nostra. E soprattutto una religione arretrata di secoli, rispetto alle religioni cristiane, nei suoi rapporti con gli Stati, i cittadini, i fedeli. Il mondo occidentale può accettare un simile dato di fatto finché riguarda, più meno gravemente, soltanto gli Stati musulmani. Invece non può e non deve tollerano quando la fede di non pochi individui e di qualche Stato vuole riportare l’Occidente indietro di mezzo millennio con aggressioni che, se sfociano nella politica e nell’economia, partono sempre dalla religione.

Per questo il prossimo attacco dell'Occidente all'integralismo terrorista avrà un senso e un risultato soltanto se riuscirà quanto più possibile a togliere il potere politico a quello religioso, per separare le leggi civili da quelle coraniche. Sarà una violenza, certo, ma necessaria come - e più di- quando Napoleone tolse la corona dalle mani del papa. La tolleranza a cui siamo arrivati con secoli di dolorose lotte fra laicismo e religiosità non deve renderci tolleranti con gli intolleranti.

Giordano Bruno Guerri

INTELLETUALI PROFESSIONISTI DEL "MA": GLI AMERICANI SONO VITTIME, PERO'...
di Gabriele Canè

Oramai li riconosci al primo «ma». E' il popolo dell'avverbio, dei distinguo. Del dolore, «ma». Della riprovazione, «ma». Della rappresaglia, «ma». Non saranno le tute nere di Seattle, i puri e duri del no global. Di sicuro. Però, si trovano meglio con Agnoletto, che con il direttore dell'Fbi; pensano che siano più dolorose le botte prese dai dimostranti, che quelle subite dai poliziotti a Genova.

Insomma: tutta l'Italia piange le vittime del terrorismo, «ma» una bella fetta di italiani, intellettuali e gente comune, sotto le macerie delle Torri gemelle ritrova e rigenera il suo storico, inveterato, incrollabile antiamericanismo. Come dire: sono molto tristi per quanto è accaduto, ma sotto-sotto, silenziosamente e incofessabilmente, un po' ci godono. Ovviamente, non lo dicono. Anzi, se glielo fate osservare, si indignano. Figuriamoci. Salvo mettere avanti i soliti «ma». In base ai quali, l'aggressione è stata vile, «ma» quante ne ha fatte l'America! I morti sono da vendicare, «ma» quanti morti ha provocato l'America! Il terrorismo è da estirpare, «ma» è ora di smetterla anche con il terrorismo della Cia e dell'America! Per farla breve: facciamo pari con tutte le stragi a stelle e strisce dell'ultimno secolo, e smettiamola di criminalizzare questo povero mondo arabo che in fondo reagisce all'aggressione dell'Occidente. Fratelli che sbagliano. Bin Laden-Bush: 1 a 1 e palla al centro.

Intendiamoci. Le critiche rivolte agli Stati Uniti sono spesso pertinenti. Lo Zio Sam, non è una damina di San Vincenzo. Né tantomeno un dispensatore disinteressato di gioia e libertà. Ha dato e continua a dare da mangiare a mezzo mondo, ma ha anche installato ed appoggiato regimi illiberali, compresi quelli islamici. Ha lanciato la bomba atomica. Ha colonizzato con la forza delle multinazionali le culture di quasi tutti i Paesi del mondo, pur non avendo una cultura sua, se non quella del Far West, della gomma da masticare e della famiglia unita (come da foto presidenziali) pur accumulando matrimoni e divorzi come le figurine dei giocatori di baseball. Nulla sfugge al suo ruolo di sceriffo del mondo, specializzato in Napalm e bombardamenti a tappeto.


Tutto vero. Tranne due piccoli particolari. Primo. Queste «ignominie» vengono da un paese democratico, fornito di presidenti democraticamente eletti e altrettanto democraticamente cacciati quando hanno sbagliato (Nixon), inserito all'interno di alleanze democratiche, previo assenso degli organismi internazionali. Si può dire lo stesso dei bersagli della «barbarie» Usa? Come il tiranno Milosevic, sterminatore e guerrafondaio, o il rais Saddam, sanguinario dittatore che ha fatto certamente altrettante vittime con le repressioni interne, di quelle provocate dai bombardamenti e dagli embarghi? Secondo. Quanto accaduto in Jugoslavia, nel Golfo o negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, nulla ha a che fare con la strage dell'11 settembre. Che resta un crimine vigliacco contro gente innocente, consumato non nel corso di un conflitto, ma in tempo di pace. Che non rientra in alcuna compensazione di altri eventi già consegnati alla Storia. Insomma, che non ammette alcun distinguo. Che non giustifica i tanti, troppi, ipocriti «ma» di queste tragiche settimane.


tratto da Il Giorno

 
Non rinunciamo ai nostri valori
di Irene Pivetti
In questo momento molte famiglie italiane sono preoccupate: quanti figli, parenti, quanti amici abbiamo che vivono o studiano negli Stati Uniti, quanti, anche soltanto per le ferie estive, non ancora terminate per tutti, si sono recati a New York, in altre grandi città americane, per respirare un poco quell'aria da capitale dell'impero che da sempre esercita su di noi il fascino della modernità, della ricchezza, dell'essere al centro della storia, mentre la storia accade? E, ieri, la storia è davvero accaduta.

La tragedia del World Trade Center, l'oltraggio, anche simbolico, del Pentagono colpito, il caso, o l'atto forse di ignoto eroismo, che ha fatto schiantare al suolo, invece che probabilmente sulla Casa Bianca, il quarto degli aerei dirottati, segnano profondamente la nostra coscienza di occidentali inquieti e sempre insoddisfatti, e tuttavia fino a oggi perfettamente certi di trovarci, sulla scena del mondo, dalla parte più sicura.

Da ieri, per tutti noi, non è più così: se gli Stati Uniti possono essere colpiti così gravemente sul loro stesso territorio, nel cuore delle loro città, nelle loro istituzioni più cariche di valore reale e anche evocativo, chi può sentirsi ragionevolmente protetto, fidando sulla loro attenzione provvidente e previdente? Quanto appare lontano lo scudo stellare, se un aereo abbassandosi di quota sfugge al controllo dei radar e, nelle mani di un commando suicida armato di coltelli, condanna a morte migliaia di innocenti.

Questa è la vulnerabilità della civiltà, questa è la debolezza della democrazia, della scelta per la libertà, volere e assicurare a tutti un mondo così profondamente umano da fondarsi il più possibile sul rispetto, sulla fiducia reciproca, sulla mutua adesione a un contratto sociale che cerca di garantire a tutti una civile convivenza. Niente restrizioni e costrizioni preventive, dunque, se non quando siano strettamente necessarie, e presunzione di innocenza per tutti, fino a prova contraria. Questa è la nostra cultura, questo è lo stile della nostra vita, questa è la civiltà occidentale moderna nella quale ci muoviamo e alla quale non sapremmo né vogliamo rinunciare. Con la strage di ieri, gli Stati Uniti, Paese guida dell'intero pianeta, ne hanno pagato per tutti l'altissimo prezzo.

Certo, ora i servizi di intelligence dovranno investigare, e individuare i colpevoli, gli esecutori, i mandanti. Dovranno chiedersi dove hanno sbagliato e come non sono riusciti ad anticipare atti tanto brutali e vili da concepire, quanto complessi e costosi da porre in atto, e forniranno all'esecutivo, e da qui all'opinione pubblica, le informazioni che rispondono alle molte domande che oggi ci poniamo. Poi, verrà la risposta. Politica, militare, in quali forme ancora non sappiamo, ma che avrà certamente anche una ricaduta sociale, e cioè che coinvolgerà anche dal punto di vista pratico lo svolgersi delle nostre giornate, dalle procedure burocratiche all'approvvigionamento di materie prime ed energia, dal tasso di inflazione al controllo del nostro territorio. Il solo fatto certo è che ieri la storia è stata piegata, ritorta come uno straccio bagnato, e noi tutti i Paesi più ricchi, i più forti del mondo ci siamo accorti di essere indifendibili, orribilmente mortali, inevitabilmente bersagli possibili.

Ecco che cosa ci fa paura. Non temiamo solo per la sorte personale dei nostri amici, dei molti parenti, che gli italiani, più di altri popoli, hanno negli Stati Uniti, ma perché ieri, mentre si sbriciolavano al suolo, ci siamo accorti fino a che punto i muri delle Twin Towers, del Pentagono stesso, fossero anche un po' i muri della nostra casa.

We, the Americans
di Pierluigi Mennitti

Difficilmente noi occidentali possiamo arrivare a comprendere l'abisso di follia che alberga nelle menti di uomini che pianificano e mettono in pratica massacri come quelli di New York e Washington. Difficilmente il nostro modo di pensare da occidentali può penetrare il buio profondo in cui quei terroristi sono immersi. Non possiamo. Né dobbiamo. Non possiamo perché siamo figli di una tradizione troppo diversa, fatta di libertà, di fiducia, di amore e anche di guerra, ma di guerra leale, aperta che guarda in faccia il proprio nemico: quando può, dritto negli occhi. Non dobbiamo perché quegli abissi, quel buio non è il nostro. E' un buio che lotta contro di noi, contro la nostra civiltà. Non è conflitto, non è contestazione, non è neppure guerra. E' barbarie. Vigliaccheria. Cinica, sofisticata, elaborata, ma sempre barbarica vigliaccheria. Non abbiamo capito l'Olocausto e la barbarie dei campi di concentramento nazisti. Non potevamo, né dovevamo. Quel buio, quell'abisso sono tornati.

Da cinquant'anni il mondo occidentale vive in pace e benessere. E' la nostra pace e il nostro benessere, beninteso. Lo abbiamo conquistato con il sangue e con il dolore, superando esperienze totalitarie che hanno segnato il corpo dell'Europa, le cui cicatrici sono state cancellate solo dieci anni fa. Ma lo dobbiamo, in gran parte, ai padri e ai nonni di quegli uomini che sono stati uccisi martedì scorso, disintegrati all'interno degli aerei o sbriciolati assieme alle macerie degli edifici. Lo dobbiamo agli americani, che hanno combattuto il nazismo e il fascismo e hanno retto la diga contro il comunismo. La nostra democrazia, le nostre libertà, politiche ed economiche, vengono da lì. Le torri gemelle erano anche le nostre torri. Quel centro del commercio era anche il nostro centro del commercio, non solo in senso simbolico, dato che uffici di aziende italiane erano ospitate al loro interno. Già in tanti hanno fatto riferimento al discorso che J.F. Kennedy tenne a Berlino all'indomani della costruzione del Muro, quando il presidente americano si disse un berlinese, dunque un europeo. Tocca a noi, adesso, dirci americani e difendere con tutti i mezzi possibili la nostra civiltà occidentale in pericolo.

Eravamo in guerra e non ce ne eravamo accorti. Lo scontro delle civiltà è già in atto da qualche tempo, ben prima che diventasse uno slogan alla moda. E' necessaria la calma dei forti, quella che le democrazie sanno mantenere anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quelli, perché hanno il sostegno delle proprie opinioni pubbliche e guardano in faccia il nemico quando devono colpire. Colpiremo quando il nemico sarà ben chiaro. Ma colpiremo pronti a giocare il nostro ruolo in prima linea, ben sapendo che la difesa di una civiltà impone fermezza, coraggio e anche sacrificio. Per la nostra generazione si tratta di un momento delicato e difficile. E' la prima volta che avvertiamo in maniera evidente che quella libertà nella quale abbiamo vissuto e alla quale teniamo più di ogni altra cosa non è un bene dato per sempre. Va difeso. Giorno per giorno. Attimo per attimo. Faremo la nostra parte, dando forza alle azioni militari che l'Occidente vorrà prendere e lavorando politicamente per creare altri cinquant'anni di libertà, democrazia e benessere.

tratto da Ideazione.com

SIAMO TUTTI AMERICANI
Siamo tutti americani. Ancora paralizzati e increduli, ci vengono in mente le parole che Kennedy pronunciò nel ’63, poco prima di essere ucciso, davanti al Muro: io sono berlinese. Allora si pensava che il mondo fosse fragile e insicuro. Non era così. Il Muro, per fortuna, non c'è più e noi ci sentivamo, fino a ieri, più sicuri e cittadini di un mondo migliore. Non era così. Il risveglio è stato bruciante, come quelle fiamme che nelle Torri gemelle di New York (simbolo della potenza economica), o al Pentagono (simbolo della potenza militare), avvolgevano migliaia di vittime inconsapevoli. Ora siamo veramente in guerra. E quel che è peggio, il nemico è invisibile. Tante vite ridotte in brandelli e in cenere. Le altre, dei loro concittadini, sconvolte. Anche le nostre, più fortunate, cambiano: le ferite che abbiamo dentro sono invisibili ma indelebili. Quelle immagini strazianti rimarranno scolpite dentro di noi. E non riusciremo a cancellare dalla nostra memoria la scritta «America under attack» che la Cnn ha scelto come titolo della più spaventosa tragedia dei nostri tempi. Ci limiteremo a correggerla. E' tutta la civiltà sotto attacco. Siamo tutti americani. Come i passeggeri dei voli dirottati che un terrificante e sofisticato piano terroristico ha trasformato in proiettili umani. Come i newyorchesi che si apprestavano ad andare al lavoro, affollando gli ascensori, con l'assillo della puntualità. Come quelle persone che si sporgevano disperate dalle torri invocando aiuto e sono state divorate dalle fiamme o sono precipitate nel vuoto.
Siamo tutti americani come George W. Bush che l'imprevedibilità del disegno divino o casuale della storia ha posto in una condizione persino più difficile di quella che dovette affrontare, dopo Pearl Harbor, Roosevelt. E il nemico non l'aveva in casa. Forse gli Stati Uniti allora erano più sicuri. Il più celebrato servizio segreto della Terra e la più discussa e temuta rete d'ascolto e spionaggio mondiale non hanno avuto il minimo sospetto. La rete di sicurezza interna è stata clamorosamente trafitta in più punti. L'unica superpotenza rimasta si scopre, nell’era di Internet e della multimedialità create dalla propria tecnologia, debole e frastornata.
Siamo tutti americani anche nel guardare con animo affranto e collera crescente le inqualificabili manifestazioni di giubilo palestinese davanti alle immagini di morte di civili inermi e nel domandarci quale sia veramente il mondo nel quale viviamo. Quello spettrale e di sangue di queste tragiche ore, cui ne seguiranno purtroppo altre, o quello del più lungo periodo di prosperità e pace della storia che oggi appare dissolversi fra la polvere, rossa di sangue, delle Torri di Manhattan.
di FERRUCCIO DE BORTOLI


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Guerra planetaria postmoderna
di Arturo Diaconale

Non è un assalto al “potere mondiale”. E neppure una riedizione di Pearl Harbour in dimensione da terzo millennio. L’attacco concentrico contro i simboli degli Stati Uniti è la proclamazione della prima guerra planetaria postmoderna. Quella che i gruppi del terrorismo islamico fondamentalista hanno scatenato non solo contro l’America intesa come il paese-guida dell’Occidente ma contro tutti i paesi dell’intero pianeta che si richiamano ai valori dell’Occidente stesso. Se fosse stato un attacco al “potere mondiale” delle multinazionali capitaliste l’obiettivo sarebbe stato concentrato sulle torri gemelle e sul quartiere che ospita e simbolizza i plutocrati a stelle e strisce. L’effetto sarebbe stato sconvolgente ma non avrebbe mai assunto la dimensione di una vera e propria svolta nella storia mondiale. Se fosse stato il tentativo di ripetere Pearl Harbour gli aerei-bomba sarebbero stati dirottati sul solo Pentagono (o magari sulla sola Casa Bianca). Con risultati sicuramente devastanti ma sicuramente ridotti rispetto a quelli apocalittici di ieri. 

Se, in sostanza, l’obbiettivo fossero stati solo gli Stati Uniti, con il loro Presidente, la loro bandiera, la loro pretesa di essere i “ padroni” ed i” gendarmi” del mondo, l’impressione sarebbe stata planetaria ma a sentirsi direttamente e personalmente colpiti sarebbero stati solo gli americani. Ma la dichiarazione di guerra non è stata inviata solo agli Stati Uniti d’America. E’ stata indirizzata all’intero mondo Occidentale ed a tutto il mondo civile. Con il dichiarato proposito di mettere in chiaro che da adesso in poi non ci sarà un solo punto del pianeta in grado di sfuggire alla nuova forma di guerra istituzionalizzata dai kamikaze di New York e del Pentagono. I terroristi hanno dimostrato fin troppo concretamente di essere in grado di colpire a proprio piacimento ovunque. Lo hanno fatto nel “cuore dell’impero”. Per far capire di poterlo fare in qualsiasi altro momento in un qualsiasi altro punto del mondo. 

La sola risposta a questa proclamazione di prima guerra planetaria postmoderna è quella espressa immediatamente dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Anche perché essere solidali nei confronti del popolo americano significa, per i paesi occidentali, essere solidali con se stessi. Con la piena consapevolezza che da adesso in poi qualunque forza politica responsabile delle società civili del globo dovrà definire con la massima chiarezza la propria posizione rispetto al terrorismo. I margini di ambiguità del passato non sono più ammessi e le zone d’ombra totalmente abolite. Le migliaia di morti di ieri hanno innalzato un confine alto e netto tra chi crede nella società aperta e nel metodo democratico e chi è a favore dell’uso della violenza e del terrorismo per imporre le proprie idee. Questo confine deve essere assoluto ed invalicabile. Con tutte le conseguenze che ne possono derivare non solo nella politica internazionale ma anche nella politica interna di ogni paese democratico ed occidentale. Italia per prima. Chi aiuta e sostiene il terrorismo va considerato un nemico. Sia esso uno stato, sia esso un movimento politico. E come tale va trattato.

In questo quadro va affrontata anche l’ipotesi che la dichiarazione di guerra planetaria sia stata lanciata con un obiettivo molto più ridotto rispetto a quello dello scontro frontale tra i terroristi ed il mondo occidentale. Cioè con l’intenzione di costringere con la forza delle armi gli Usa e l’Europa a scegliere tra il conflitto ad oltranza sull’intero fronte mondiale e la rinuncia definitiva a difendere Israele dalla pressione non solo del popolo palestinese ma dell’intero mondo arabo. Le dimensioni apocalittiche dell’aggressione lascerebbero intendere che la richiesta del terrorismo potrebbe avere un significato del genere. Quello, cioè, di convincere l’Occidente a risolvere il problema mediorientale rinunciando a garantire la sopravvivenza dello stato ebraico. Non a caso qualche dirigente palestinese, ed anche qualche autorevole osservatore occidentale, fa capire che basterebbe riservare ad Israele la stessa sorte degli stati crociati per far immediatamente terminare la prima guerra planetaria post-moderna. Ma in questo caso i vincitori sarebbero i terroristi. E gli sconfitti l’Occidente. Per tutto il prossimo millennio.

tratto da L'Opinione

LA POTENZA VULNERABILE
L’unico assalto al potere mondiale che possa, sia pure lontanamente, confrontarsi con quanto è accaduto ieri a New York e a Washington è l’ondata di attentati che si abbatté sulle teste coronate e sui capi di Stato repubblicani tra la fine del 1800 e i primi del 1900. Non vi fu una strategia unitaria del terrorismo anarchico. Ma vi fu tra gli anarchici europei e americani la speranza che l’eliminazione fisica dei re e dei presidenti avrebbe liberato il mondo dal dominio delle classi dirigenti. Oggi la strategia è completamente diversa. Gli accoliti di Osama Bin Laden (se è lui il grande regista degli attentati americani) non cercano di uccidere George Bush.
Sanno che la morte del presidente degli Stati Uniti susciterebbe scandalo ed emozione, ma avrebbe tutto sommato, come nel caso dell’assassinio di Kennedy, ricadute modeste sul funzionamento della macchina politica e amministrativa degli Stati Uniti. Anziché colpire il vertice del potere, colpiscono i luoghi simbolici di due grandi città americane. Anziché terrorizzare gli individui, cercano di terrorizzare le masse. Sanno che il crollo dei grattacieli gemelli e l’incendio del Pentagono non bastano, da soli, a distruggere il Gulliver americano. Ma si propongono con questi attentati di distruggere il mito che ha sostenuto e puntellato per più di duecento anni la politica internazionale degli Stati Uniti. I danni materiali e il conto delle vittime sono, in ultima analisi, meno importanti del danno politico morale: la fine del mito dell’invulnerabilità americana.
L’invulnerabilità è stata per molto tempo la certezza tacita e rassicurante di ogni cittadino degli Stati Uniti. Quando abbandonò la presidenza, alla fine del suo mandato, George Washington raccomandò ai propri connazionali di non lasciarsi imprigionare dai lacci della politica estera europea. Da allora l’America sembra avere più volte disobbedito al testamento politico del suo primo leader. Ha vinto due grandi guerre mondiali, ha perduto la guerra del Vietnam, ha preso parte a molti conflitti minori e ha permesso che i suoi soldati fossero impegnati in dozzine di operazioni militari. Ma ogni coinvolgimento negli affari del mondo era mitigato, agli occhi dell’opinione pubblica, dalla convinzione che il Paese godesse di una protezione naturale: due grandi oceani, le dimensioni continentali, la cuginanza del Canada e la cronica debolezza dei suoi vicini a sud del Rio Grande.
La guerra fredda ha modificato in parte questa convinzione. Il regime comunista a Cuba, le basi che l’Unione Sovietica cercò d’installare nei Caraibi, i focolai rivoluzionari in America Latina, i missili intercontinentali puntati contro le grandi città degli Stati Uniti e la possibilità di una guerra nucleare hanno dato a molti americani la sensazione che il Paese corresse il rischio di essere fisicamente coinvolto in un conflitto. Ma il nemico era visibile, tangibile e, a sua volta, terribilmente vulnerabile. Gli americani sapevano, in altre parole, che il potere distruttivo del loro arsenale nucleare avrebbe trattenuto i sovietici sull’orlo del precipizio, che l’equilibrio del terrore era una garanzia di pace.
Oggi il nemico è invisibile e intangibile. Gli americani sanno che Osama Bin Laden è in Afghanistan e conoscono probabilmente la dislocazione di alcune centrali terroristiche in Medio Oriente. Ma non possono colpire all’impazzata. Possono cercare di infiltrare i loro uomini e ricorrere, per la raccolta delle informazioni, al più sofisticato arsenale elettronico esistente nel mondo. Ma non possono anticipare tutte le mosse dell’avversario e parare i colpi di un nemico che è in grado di nascondersi ovunque. Ancora una volta l’arte anticipa la realtà e i fatti si limitano a copiare l’immaginazione degli artisti. Chi ha visto un film recente ( Attacco al potere con Bruce Willis e Denzell Washington) si accorge improvvisamente di avere visto, con molti mesi di anticipo, ciò che è accaduto ieri.
Se la principale vittima degli attentati è il sentimento della invulnerabilità americana, gli attentati avranno certamente ricadute di lunga durata. Bush dovrà chiedersi anzitutto quale sia in queste circostanze l’effettiva rilevanza dello scudo antimissilistico con cui intende difendere l’America dagli attacchi degli «Stati canaglia». La minaccia oggi non proviene dalla Corea del Nord e dall’Iraq, contro cui l’America può sempre, se necessario, scatenare una violenta rappresaglia. Proviene da un esercito di ombre e fantasmi. Un giornalista americano, Thomas Friedman, scrisse qualche mese fa che lo scudo non avrebbe mai impedito a un commando terroristico di lanciare un missile contro New York da una piccola imbarcazione nella baia di Long Island. Ciò che è accaduto ieri conferma l’analisi di Friedman e va molto al di là della sua immaginazione.
L’altro fattore di cui Bush dovrà tener conto è la reazione della opinione pubblica americana. Il regista degli attentati ha agito probabilmente nella convinzione che la crisi palestinese avrebbe assicurato alla sua strategia il consenso di una larga parte delle masse arabe. Vi è quindi un rapporto molto stretto tra il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente e i fatti di ieri. E’ difficile immaginare che l’America ceda al ricatto di un terrorista e accetti di modificare la propria linea. Ed è ragionevole supporre che l’opinione pubblica reagirà agli attentati con un soprassalto di orgoglio nazionale. Ma esiste un’America in cui la diffidenza per gli affari mondiali e l’isolazionismo hanno messo profonde radici. Quell’America sa oggi che il suo straordinario arsenale militare e il suo raffinato spionaggio elettronico non bastano a difenderla dalle insidie del nemico. Nessun presidente degli Stati Uniti, d’ora in poi, potrà ignorarne i sentimenti e le paure.
di SERGIO ROMANO


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LA STRANA GUERRA 

di Stefano Magni

Lo spettacolare attacco suicida compiuto da terroristi islamici contro obiettivi civili a New York e a Washington dovrebbe farci capire che siamo in guerra. Siamo già in guerra da una quindicina d’anni, a dire il vero, ma il nostro letargo di occidentali ci impedisce di capirlo, come negli anni ’70 e ‘80 ci impediva di capire che eravamo in guerra contro l’URSS. La guerra che l’Islam sta combattendo contro l’Occidente, prima quasi esclusivamente contro Israele, l’avamposto occidentale in Medio Oriente e poi direttamente contro di noi, è una guerra di tipo diverso rispetto sia alle guerre convenzionali fra Stati, che siamo abituati a concepire, sia rispetto a quell’equilibrio bellico nucleare con l’URSS che pure non ci è mai entrato ben in testa (tanto che molti storici fissano al 1953 la data della fine della Guerra Fredda). E’ diversa da tutte le altre esperienze di guerra perché non è una guerra combattuta da Stati sovrani contro Stati sovrani e per questo non può essere una guerra dichiarata, né una guerra che possa avere un fronte, un inizio, una fine, obiettivi territoriali o politici da raggiungere. Questo perché, comunque, il mondo islamico non è un mondo di Stati, così come invece lo è l’Occidente. I punti di riferimento principali della civiltà islamica sono la famiglia (o il clan o la tribù) e la religione, che è universale e detta la legge non solo morale ma anche politica. Per il musulmano non eretico l’Islam e il potere politico sono la stessa cosa, non esiste distinzione fra politica e religione e il suo potere, essendo universale, deve estendersi a tutto il mondo. E’ per questo che oggi assistiamo impotenti ai colpi inflitti alle nostre città da un nemico “invisibile”, costituito da gruppi privati, molto probabilmente provenienti da una pluralità di Paesi musulmani (e molto più probabilmente anche appoggiati da una pluralità di Paesi musulmani) che agiscono segretamente nel nome dell’affermazione dell’Islam sulle macerie dell’Occidente cristiano. A rispondere alla domanda “chi è stato?” si può rispondere sia con “qualche fanatico”, sia con “tutti”. Entrambe le risposte sono corrette, perché queste sono le due dimensioni del mondo islamico. Pochi fanatici colpiscono, tutti i musulmani festeggiano (da Gaza a Londra passando per Istambul e Milano, dove sono state esposte bandiere palestinesi) e in mezzo i governi islamici negano, magari godendosi la vittoria nel segreto dei loro bunker. Tutti i governi islamici, anche quelli che ufficialmente sono alleati con gli Stati Uniti: non era dei “tranquillissimi” Emirati Arabi Uniti la copertura diplomatica di uno dei commando suicidi? Questo è il tipo di guerra a cui dobbiamo abituarci.

Non è una guerra che siamo destinati per forza a perdere, come potrebbe sembrare a prima vista soprattutto in questi giorni. A un nuovo tipo di aggressione si è sempre trovato un nuovo tipo di difesa e finora le democrazie occidentali sono sempre uscite vincitrici. Non bisogna disperare. Bisogna però rendersi conto che siamo in guerra, anche se (per fortuna) si tratta di una guerra discontinua e di bassa intensità. Questa è la cosa più dura da far accettare alle nostre coscienze: il fatto di essere in guerra, cosa che le opinioni pubbliche occidentali non tollerano più da mezzo secolo. In una guerra come questa occorre capire giusto un paio di cose:

  1. che non ci sono Stati islamici “buoni” e “Stati canaglia”, ma che tutti i governi islamici, arabi e non, sono potenzialmente o attualmente pronti a finanziare e a coprire attacchi contro l’Occidente e tutti, anche se lo negheranno sempre, mirano a penetrare economicamente, culturalmente e anche militarmente i nostri Paesi con lo scopo di sopraffarci quando le condizioni lo permetteranno;
  2. che, anche se esistono milioni di musulmani pacifici e civili, l’Islam, con buona pace di Igor Man, non è una religione tollerante che merita lo stesso spazio e la stessa tolleranza rispetto alle altre religioni: l’Islam è un’ideologia militante e imperialista il cui scopo finale è la sua affermazione nel mondo passando per la distruzione di tutte le religioni non islamiche, soprattutto quella ebraica e quella cristiana;
  3. che dunque non si può affatto limitare l’attuale escalation di violenza alla sola questione palestinese, alla sola esistenza di Israele o anche alla politica “sbagliata” di Bush nel Medio Oriente: noi occidentali, oggi in America, domani magari anche nel cuore dell’Italia, siamo pericolosi agli occhi degli Islamici e dobbiamo essere distrutti perché esistiamo.

Sembrerà un po’ azzardato trarre conclusioni simili dopo un singolo attentato, sia pur spettacolare, ai danni degli Stati Uniti. Molti liberali, tuttavia, già dalla prima crisi del Golfo, nel 1987, mettevano in guardia da questo pericolo e dicevano già allora le cose che io sto scrivendo in questo articolo. Ricordo gli articoli di fondo di Livio Caputo sull’Iran e anche gli articoli più recenti di Fiamma Nierenstein sull’Iraq e sulla questione palestinese o anche il libro di Huntington sul Conflitto di Civiltà: dicevano le stesse cose. Purtroppo l’opinione pubblica è rimasta distratta da altre crisi più vicine e più coinvolgenti per noi. I conflitti nei Balcani e la necessità da parte della NATO di fermare per due volte l’imperialismo serbo hanno spostato la nostra attenzione su un altro nemico: il nazional-comunismo che serpeggia nell’Europa orientale. E nel caso della guerra in Bosnia e della guerra nel Kosovo gli Islamici albanesi (appoggiati dalle loro reti di terrorismo internazionale, le stesse che adesso hanno attaccato nel cuore degli Stati Uniti) sono passati nel ruolo degli aggrediti da difendere. Era vero: in quel caso, come nel caso della guerra in Afghanistan, gli Islamici erano nel giusto, avevano diritto di difendersi e avevano diritto di ricevere il nostro aiuto militare. Ma questo ci ha fatto dimenticare che, nonostante quelle alleanze provvisorie e locali contro un comune nemico, anche l’Islam è un nemico non meno pericoloso del nazional-comunismo e che siamo continuamente in guerra con esso. Ci siamo crogiolati per anni nella convinzioni che non ci fossero nemici a Sud, come quando, durante la II Guerra Mondiale, eravamo convinti che non ci fossero nemici a Est. Adesso l’abbattimento del World Trade Center e l’attacco al Pentagono ci hanno (forse) risvegliati da questo letargo.

Adesso che ci si è resi finalmente conto che ci sono nemici a Sud e meglio armati e organizzati (e soprattutto meglio determinati a batterci) di quanto non pensassimo, che fare? Prima di tutto, come ho già accennato, occorre rendersi conto di che cosa sia effettivamente l’Islam e del fatto che esso è in guerra con noi. E già su questo punto siamo messi veramente male. Perché abbiamo una politica ufficiale che tratta ancora con le diplomazie arabe come se fossero diplomazie di Stati europei e soprattutto abbiamo una vasta opinione pubblica che, fallito il suo progetto utopistico, vuole semplicemente distruggere la civiltà occidentale, anche a mezzo Islam. Quell’opinione pubblica che brinda al successo degli attentati islamici in America nelle redazioni, che festeggia nei siti “pacifisti” dei no-global e che pacatamente spiega dalle colonne dei suoi giornali, in Parlamento o nei salotti bene che “gli Americani hanno semplicemente subito per una volta quello che fanno continuamente in tutte le città del Mondo.” Quella stessa opinione pubblica che si esprime contro il crocefisso nelle scuole, ma per il “libero” uso del chador nelle stesse, che taccia di intolleranza chi protesta contro la costruzione di una Moschea con soldi nostri e poi vuole che si pratichi l’infibulazione nelle strutture pubbliche. Sempre coi soldi nostri. Quella stessa opinione pubblica che taccia Haider di nazismo, che si dichiara memore dell’Olocausto in modo ossessivo e sacrale e che poi appoggia chi vuole l’annientamento fisico totale dello Stato di Israele. Questa opinione pubblica, che trionfa in tutta l’Unione Europea, ci porterà dritti alla sconfitta finale, se non altro perché ormai è talmente confusa e contraddittoria che non può che portare all’autodistruzione. La lotta contro questa opinione pubblica sarà la parte più ardua e più difficile da vincere di questa nuova strana guerra che ci siamo trovati a combattere nostro malgrado. Questa lotta potrà essere vinta solo quando e se si riusciranno a convincere le menti più aperte e progressiste delle nostre società che l’Islam è un nemico concreto che vuole riportarci indietro al caos e al buio dell’Alto Medioevo. E che ha, ogni giorno di più, i mezzi per farlo.

Nell’alto delle sfere politiche, invece, occorre cambiare strategia. Occorre prendere esempio da chi l’Islam lo combatte in un modo o nell’altro da mezzo secolo: da Israele. Gli Israeliani sanno benissimo che dietro a un regime arabo apparentemente neutrale o anche amichevole si può nascondere una forza economica e militare che finanzia attentati e prepara aggressioni. Per questo non si pongono molti problemi diplomatici e, soprattutto, scavalcano in pieno la sovranità degli Stati dentro i quali si prepara qualche minaccia. Gli Israeliani hanno per caso atteso di consultare ufficialmente l’ambasciatore irakeno per accertarsi delle intenzioni di dotarsi di un reattore nucleare vent’anni fa? No: hanno fatto alzare in volo i loro cacciabombardieri e hanno distrutto l’impianto in costruzione in pieno territorio “sovrano” irakeno. In Libano hanno ripetutamente colpito su suolo straniero e “sovrano” i campi di addestramento di Arafat e Jumblatt e le sue postazioni militari. Oggi intervengono ogni giorno nel territorio “sovrano” dell’Autorità Nazionale Palestinese per colpire i leader terroristici, i loro fanatici seguaci e le loro strutture. Immorale? Così facendo gli Israeliani hanno fatto pochi morti e ne hanno subiti pochi. In termini relativi, questo deve essere chiaro: Israele è una terra insanguinata, ma non si sono mai visti 20.000 morti a Tel Aviv in un solo giorno per un attentato. Gli Israeliani, nella loro lunga lotta per la sopravvivenza contro un Islam che ne vuole l’annientamento, la stessa lotta che stiamo combattendo noi, volenti o nolenti, hanno imparato due cose essenziali: evitare di fidarsi delle promesse del nemico e colpirlo preventivamente alla radice con attacchi mirati, infischiandosene della sua “sovranità”. Questo è quello che le leadership politiche e militari delle democrazie occidentali devono incominciare a fare da subito. Cercare e distruggere il nemico ovunque esso sia, indipendentemente da confini o da protezioni diplomatiche, dare retta fino a un certo punto alle diplomazie islamiche, tenendo sempre il dito sul grilletto. Si individua un campo di terroristi in Afghanistan? Alla fine del giorno stesso esso non deve più esistere. Si localizza un ufficio nel centro di Damasco dove si riuniscono leader terroristi a pianificare attentati? Ci si infila subito dentro un missile. Solo così, prevenendo colpo su colpo, ovunque esso sia progettato, saltando le vecchie norme del diritto internazionale che ormai sono solo d’intralcio, si può vincere questa strana guerra. Attualmente, come lamenta qualche libertario, gli Stati Uniti sono il Paese più pericoloso del mondo in fatto a dispiegamento di forza. Bene: a Washington, se si vuole vincere, non si deve temere di usarla questa forza. Ovunque essa risulti necessaria.

Questa nuova politica militare deve essere anche più profonda se vuole avere successo. La politica contro l’Unione Sovietica non ha avuto successo fino a che Reagan non le ha fornito delle basi anticomuniste, fino a che non si è riconosciuto che il regime bolscevico era un’aberrazione dell’umanità e che andava estirpato. Questa nuova guerra non avrà successo fino a che non si riconoscerà che lo Stato etico islamico, dove religione e politica sono fuse in un’unica macchina di repressione ed aggressione militare, è un’aberrazione umana e va estirpato ovunque. Sia esso dotato di credenziali “tradizionali” come l’Arabia Saudita, sia esso “rivoluzionario” come l’Iran. Se le democrazie occidentali rinunceranno ad esportare i loro ideali e il loro modello di libertà individuale anche nel mondo islamico, nel nome di una presunta tolleranza nei confronti dei loro “usi e costumi”, allora vorrà dire che avremo sicuramente perso.  

Se i Talebani danno lezioni di democrazia
di Gualtiero Vecellio


George Orwell l’aveva capito, e descritto nella sua celeberrima Fattoria degli animali: siamo tutti uguali, ma c’è sempre qualcuno che è più uguale di altri. Se ne ricava puntuale conferma dalla notizia che proviene dall’Afghanistan, costretto sotto il ferreo tallone dei Talebani, gli studenti islamici integralisti: trentacinque dipendenti dell’organizzazione umanitaria International Assistance Mission sono stati arrestati; il loro “crimine” sarebbe quello di aver distribuito “pubblicazioni cristiane in lingua locale”. Per questo “delitto” rischiano la pena di morte. Sempre colpevoli d’analoghi reati, da più un mese sono in carcere otto stranieri, due uomini e sei donne, accusati anche loro di aver “diffuso il cristianesimo”. I volontari, quattro tedeschi, due statunitensi e due australiani, sono già comparsi in tribunale sabato scorso; e si può ben immaginare, dal tenore delle accuse, quali siano le garanzie del processo, il tipo di affidabilità che danno i “giudici”. Ad ogni modo gli inquisiti si sono proclamati innocenti, e hanno avuto il coraggio – un coraggio, va detto, che rasenta la temerarietà – di definire le accuse assurde; e implicitamente qualificando come assurdo il modo di pensare e di agire dei loro accusatori.

Come finirà la vicenda non sappiamo: dai Talebani è lecito attendersi di tutto. Sono fanatici che hanno distrutto a cannonate le grandi statue che effigiavano Buddha, e costituivano una delle meraviglie del mondo; distruggono come opera del demonio, televisioni, telecamere, giradischi; ritengono la lapidazione un giusto castigo per le adultere; nella loro classifica di valori vengono prima cani e capre delle donne. Quel che sappiamo è che quanto accade a Kabul non interessa. Ricordiamo – e crediamo di non sbagliare – che la sola Emma Bonino, quando era commissario europeo, cercò di sollevare la fitta cortina di silenzio e indifferenza attorno ai crimini dei Talebani; rischiò per questo, di finir molto male: sequestrata per ore, e minacciata, lei e i suoi coraggiosi accompagnatori. Se ne parlò per qualche giorno, si apprese delle condizioni letteralmente infami in cui le donne sono costrette a vivere; poi silenzio, disinteresse totale. 

Eppure motivi per tener aperti gli occhi li abbiamo. Qualche anno fa. per esempio, il vice-segretario dell’ONU con delega per la lotta alla droga, l’ex senatore diessino Pino Arlacchi, strinse con i Talebani un contestato (ma in Italia molto ed entusiasticamente pubblicizzato) patto per “estirpare in dieci anni, e con 400 miliardi di lire, la coltivazione di oppio in Afghanistan”. Detto fatto. Il Dipartimento di Stato americano nei suoi rapporti annuali sugli stupefacenti fa sapere che l’Afghanistan ha superato la Birmania nella produzione di oppio; il denaro ricavato con la droga i Talebani lo investono in armi, e per finanziare attività terroristico-militari. Di queste cose ne hanno parlato ampiamente giornali e settimanali di mezzo mondo. In Italia non una parola. 

L’Afghanistan dei Talebani sembra essere un tabù. E maggiormente lo è, a quanto pare, per coloro sempre pronti a procombere di diritti umani e civili quando sono calpestati negli Stati Uniti o in un qualche paese occidentale; proviamo a immaginare, per esempio, cosa sarebbe accaduto se trentacinque persone di religione islamica fossero stati arrestati in Israele, con l’accusa di aver diffuso la loro religione; e per questo rischiassero un processo con un verdetto di condanna a morte. Si sarebbero levate proteste, organizzate manifestazioni; parlamentari avrebbero invocato l’intervento dei Governi, auspicando interventi, sanzioni, boicottaggi. Giustamente. Trattandosi invece dell’Afghanistan dei Talebani, niente: come se i diritti umani siano soggetti alla latitudine.

E’ un interrogativo che giriamo ai professionisti delle proteste a senso unico, che sono ancora tanti: le discriminazioni degli omosessuali sono intollerabili a Londra, Roma, Parigi, ma non a L’Avana; si denuncia l’apartheid vero o presunto che sia in Israele; non si fiata sull’infame sistema delle caste in India; ci si indigna per i condannati a morte in America, non una lacrima per le centinaia di “giustiziati” in Cina… Si dirà: è sempre accaduto. Vent’anni fa pacifisti orbi da un occhio manifestava contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing; ma nessuna manifestazione contro gli SS-20 sovietici già operativi. Ancora prima sterminate manifestazioni contro la guerra in Vietnam, o i golpisti cileni; niente per l’Afghanistan invaso dai sovietici, o in favore dei dissidenti russi e dei paesi dell’Est europeo. Una storia, insomma, che si rinnova, questa dei perseguitati dei Talebani. Non per questo è bella e ci piace.

tratto da L'Opinione

Quel crocifisso da bruciare
di Paolo Pillitteri


Parole abusate, luoghi comuni risaputi, condanne unanimi già viste. E che la realtà superi la fantasia e la fiction di “Armageddon” o di “Indipendence day”, è fin troppo facile ricordare. La polverizzazione delle Twin Towers, simboli quant’altri mai, monumenti alla economia e alla finanza mondiali, emblemi indiscutibili della globalizzazione, quella nuvola di fumo che avvolgeva Manhattan dopo il crollo delle novelle “torri di Babele” l’avevamo già vista, ne avevamo già sentito l’acre sapore di morte e di nichilismo. Pochi mesi fa, la cronaca annunciata dai Talebani al mondo intero (che nulla fece, peraltro) della polverizzazione delle enormi statue di Buddha aveva sollevato la stessa polvere mortale, la medesima voluttà di distruzione. Qualche protesta, invero, s’alzò, qualche dissenso in nome dell’arte e della tradizione si sentì. 

Ma come le voci che gridano nel deserto, furono subito coperte dal suono della generale distrazione. Che un governo come quello dell’Afganistan potesse permettersi di distruggere il simbolo d’una grande religione, d’una splendida tradizione culturale, d’una millenaria storia comune all’Oriente senza una reazione corale e punitiva del resto del mondo, ebbene, questo è stato ed è il segnale più vistoso e al tempo stesso terribile del vero nemico che vive in noi, in America non meno che in Europa, l’indifferenza. Nessun Kofi Annan ha sollevato la questione nelle sedi cosiddette appropriate con almeno un decimo della veemenza con la quale incendiò la platea di Durban contro Israele e, di riflesso contro gli USA, nessun Procuratore Generale Internazionale iscrisse nel registro degli indagati i responsabili di quel crimine contro la cultura cioè contro l’umanità, nessun Arlacchi si premurò di trattare il problema con la stessa passione con cui scambiò, a suon di dollari, le coltivazioni di droga dei Talebani con quelle di patate. 

La settimana scorsa, le cronache striminzite di qualche quotidiano, avevano riportato la drammatica odissea di un gruppo di otto volontari di una Ong a Kabul, finiti in galera perché accusati di “spiegare il Vangelo, di esporre il Crocefisso”. In una foto sfuocata si vedeva il volto del Cristo e, in un’altra, il Cristo sulla Croce, la prova provata del delitto supremo sancito con la condanna a morte. La Croce, un altro emblema, un altro simbolo, d’una religione, d’una tradizione, d’una cultura, le nostre. Non s’è mosso nessuno, neanche in questo caso che, pure, ci riguarda da vicino e che possiede l’irresistibile forza evocativa d’una volontà distruttrice, fanatica e fondamentalista. Non ci si è neppure chiesti come sia possibile che all’inizio del nuovo millennio dei governanti possano individuare nella Croce il simbolo del male, dell’aggressione, della guerra santa e che, dunque i credenti in questo simbolo possano non soltanto essere processati senza avvocati ma destinati alla condanna a morte. Il silenzio della indifferenza e, angoscioso, il silenzio degli innocenti. 

Ma ora che siamo entrati nei giorni della terza guerra mondiale, possiamo, dobbiamo chiederci a cosa sia servita l’indifferenza, la sordità, la disattenzione se non a giocare a nascondino con la violenza devastante d’un estremismo islamico sottovalutato e lasciato crescere come un mostro, come un Alien, ancorché fosse già in mezzo a noi, dentro la nostra civiltà, dentro il cuore pulsante dell’Occidente. Migliaia di morti, sangue e devastazione, crolli di simboli, sterminio di culture. Questo è il programma d’una guerra di religione globalizzata alla quale non mancherà, prima o poi, la tremenda ritorsione statunitense, basti pensare a Hiroshima e Nagasaki dopo la Pearl Harbour del 1941. Ma già da ora, chiediamoci almeno dove e perché siamo rimasti così a lungo inerti, silenziosi e indifferenti. Forse perché ci siamo illusi che la campana non suonasse (anche) per noi.

tratto da L'Opinione

E ora?
di David B. Kopel

Ora, l'Arabia Saudita dovrà dimostrare se merita di essere considerata un alleato degli Stati Uniti. Gli Usa l'avevano difesa dopo l'invasione irachena del Kuwait. Gli Usa avevano perfino acconsentito alla sua richiesta di vietare ai soldati americani di esercitare la loro libertà di religione, quando erano sul suolo arabo per difendere l'Arabia stessa da Saddam Hussein. Ora l'Arabia Saudita userà la propria immensa influenza sui talebani, per far sì che Osama bin Laden e le sue truppe siano consegnati immediatamente agli americani? Se gli arabi non ci sosterranno nel momento del nostro massimo bisogno, essi non sono nostri alleati.

Coloro che chiedono di aumentare il budget della Cia, dovrebbero svelare a quanto esso ammonti attualmente, e perché sia inadeguato. In realtà, il bilancio della Cia è completamente segreto. E' pur vero che vi sono buone ragioni per tenere segreti i singoli capitoli di spesa, ma la giustificazione per la segretezza dell'intero budget è debolissima. In Canada, in Gran Bretagna e perfino in Israele le spese complessive per l'intelligence sono pubbliche.

La Costituzione prevede che: "Periodicamente sarà pubblicato un regolare rendiconto delle entrate e delle uscite di tutto il denaro pubblico". Non ci sono eccezioni. Durante la Seconda guerra mondiale, il presidente aveva rispettato la Carta, rendendo pubblico il bilancio dell'Ufficio per i servizi strategici, il predecessore della Cia. Gli ex direttori della Cia Turner, Gates e Deutch, come l'unanimità dei membri della Commissione Brown-Aspin del 1996, riconoscono che non vi è alcun rischio per la sicurezza nazionale nel rivelare il budget complessivo della Cia.

La Cia, che ha già perso due miliardi di dollari spendendoli nelle attività sbagliate, è in grave deficit. Forse, quello di cui essa ha bisogno non sono più soldi, ma una leadership migliore. Come i viscidi avvocati che si radunano sulla scena dello scontro, così sicuramente i fautori del governo illimitato faranno a gara per mostrare come gli atti di guerra di martedì 11 settembre rendano necessario conferire maggiori poteri a un governo intrusivo e incostituzionale. Invece di ammettere che le misure restrittive sui viaggiatori onesti, messe in atto dopo il disastro del Twa Flight 800, non sono state in grado di proteggerci, essi chiederanno altre delle medesime non-soluzioni fallimentari.

Dovremmo ricordarci che, come negli anni dopo Pearl Harbor, non sempre chiedere che il governo abbia più potere ci renderà più sicuri, e talvolta peggiorerà le cose. L'imprigionamento dei cittadini americani di origine giapponese; i controlli sui prezzi e sui salari; e i controlli "di emergenza" sugli affitti a New York City (che sono tuttora in vigore) sono solo alcuni esempi di come la libertà e la forza americana siano state ferite dalla distruttiva espansione del governo. La prima fonte della nostra forza è la nostra libertà e la società aperta. Gli Stati Uniti hanno già l'esercito più potente del mondo. Non abbiamo bisogno di digrignare i simbolici denti, denti di nuove leggi, ma della volontà di usare il nostro attuale potere di guerra. Paul Weyrich, leader della Free Congress Foundation, correttamente scrive: "La verità è che se noi continueremo a indebolire la nostra Costituzione, i terroristi avranno ottenuto la più grande vittoria immaginabile. Il loro trionfo non sarà solo nelle migliaia di persone che hanno ucciso, ma anche nel crollo delle nostre istituzioni democratiche. Se il presidente Bush riuscirà a mantenere una condotta responsabile dove noi forniremo la giusta risposta a coloro che hanno perpetrato questi indicibili crimini, e al tempo stesso saprà difendere le nostre libertà indisponibili, egli passerà alla storia come il più grande presidente dell'epoca moderna".

Per impedire aggressioni future, gli autori delle atrocità di martedì devono essere completamente distrutti, anche se questo significa infrangere la sovranità territoriale delle nazioni che li ospitano. Offendere l'opinione del mondo non deve essere una preoccupazione per noi. Non è stato Le Monde ad attaccarci, quindi se Le Monde o The Guardian apprezzino la risposta americana è molto meno importante del fatto che ogni terrorista sulla faccia della terra deve capire che un attacco all'America sarà una sentenza di morte per se stesso e la propria intera organizzazione. Come dimostra il fallimento del tentativo di eliminare le armi dalle scuole, l'ostracismo verso le armi legalmente detenute semplicemente fornisce un incentivo ai malfattori, garantendo loro che nessuno potrà opporsi alla loro volontà. E' scandaloso che qualche dirottatore armato di coltello sia stato in grado di tenere in ostaggio un gran numero di passeggeri. Come primo passo per rendere gli aerei commerciali più pericolosi per i dirottatori, i piloti dovrebbero essere muniti di pistole. Lo storico Clayton Cramer domanda: "Se non vi fidate di un pilota armato di pistola, perché vi fidate di lui quando è al comando del velivolo?".

L'addestramento necessario a sparare a un aggressore a distanza molto ravvicinata può essere svolto in un fine settimana. Dovrebbero essere scelte pistole e munizioni che abbiano una elevata frangibilità e un basso potere penetrante - cioè un basso rischio che la pallottola penetri le pareti d'acciaio dell'aereo, o trapassi un dirottatore e colpisca un passeggero. In ogni caso, i rischi che un dirottatore si trovi di fronte a un tentativo di resistenza sono molto inferiori ai rischi che egli riesca a farla franca. Per la stessa ragione, dovrebbe essere permesso ai funzionari di volo che lo desiderino di portare armi nascoste. E i passeggeri? Quarant'anni fa, gli sportivi tenevano abitualmente i loro fucili nel vano sopra la testa. Quali che siano i benefici prodotti negli ultimi trent'anni dalle leggi che vietano ai passeggeri di portare le loro armi legalmente possedute in volo, essi sono stati ampiamente sorpassati dalle morti di un solo giorno, che sono il risultato dell'aver trasformato gli aerei in zone tranquille per i terroristi.

E, lettori, se mai doveste trovarvi su un aereo dirottato, ricordate che è meglio per voi morire da eroi, dopo aver guidato gli altri passeggeri contro i dirottatori, che permettere passivamente che il vostro aereo sia usato per distruggere migliaia di altri innocenti. Dagli anni '70 fino a non molto tempo fa, era comune buonsenso dei terroristi di tutto il mondo evitare di agire negli Stati Uniti, perché sapevano che questo avrebbe portato alla distruzione dei loro centri di addestramento e di loro stessi. Gli atti di martedì mostrano che tale deterrente non è più credibile. Che tipo di risposte hanno fornito gli Stati Uniti al terrorismo? Bombardare una fabbrica di aspirina in Sudan per distrarre l'attenzione pubblica dal Dna sul vestito di Monica Lewinsky? Un solo raid su Tripoli durante l'amministrazione Reagan, che non ha neppure ucciso Gheddafi? Gli uomini che dirottano aerei possono anche avere il coraggio dell'inferno dei piloti kamikaze, ma i loro codardi padroni no. Quando i capi terroristi e i loro ospiti impareranno che un attacco all'America è la garanzia della loro morte, allora finirà la guerra contro gli Stati Uniti d'America. 

14 settembre 2001

da National Review on line

(traduzione dall'inglese di Carlo Stagnaro) - tratto da Ideazione.com

E se gli Usa tornassero al non interventismo?
di Carlo Stagnaro

Non ci sono parole per descrivere quello che è accaduto martedì 11 settembre 2001. Le abbiamo sprecate tutte. Aveva ragione Beppe Grillo quando, molti anni fa, criticava il mondo dell'informazione. Se una pioggia un po' più violenta del solito, capace di allagare qualche sottopasso, è una "tragedia", cosa è quello che si è verificato a New York e Washington? Solo il silenzio può dare la misura del dramma che si è consumato. Solo le parole di condoglianze o di solidarietà per l'America hanno un senso. Tutto il resto è speculazione inutile, sensazionalismo da scoop o sottile cinismo.

Non è inutile, invece, chiedersi le ragioni di tutto ciò. E interrogarsi sulle conseguenze. Paradossalmente, coloro i quali hanno inquadrato correttamente la questione sono quanti hanno affermato: "Chi la fa, l'aspetti". La politica estera degli Stati Uniti è stata improntata, nell'ultimo secolo, all'interventismo in tutto il mondo. In quasi ogni paese del globo sono stanziate truppe americane; non di rado, la loro presenza è mal tollerata, o percepita, come aggressiva.

La situazione è stata ben chiarita da Joseph Sobran: "Questo non era terrorismo. Era guerra. Non è stato un tentativo occasionale di spaventare la gente con un'atrocità arbitraria; si è trattato del serio tentativo di uccidere il maggior numero di persone, e di procurare il maggior danno possibile a due obiettivi strategici, le Twin Towers e il Pentagono. Ma, come ho già scritto, nonostante siano passate diverse ore dall'attacco, non sappiamo ancora chi ci ha dichiarato guerra. Forse non lo sapremo mai. Chi ha motivo di odiare questo paese? Solo qualche centinaio di milioni di persone - arabi, musulmani, serbi e molti i altri i cui paesi sono stati flagellati dalle bombe americane".

In un bellissimo libro, significativamente intitolato "The Costs of War", John W. Denson ha scritto: "E' la gente, nel senso più ampio possibile, che perde la vita, la salute, la libertà e la proprietà, a sostenere tutti i costi della guerra". Parole che, col senno di poi, si rivelano profetiche. Purtroppo, martedì scorso i cittadini americani hanno pagato - con gli interessi - il prezzo di tutto ciò che i loro governanti hanno fatto nei decenni precedenti. Un prezzo quanto mai salato: che ha assunto la forma di un attacco micidiale non solo alla nazione americana, ma anche all'idea di libertà che l'America incarna e al capitalismo come modello sociale giusto in quanto liberale; un colpo micidiale al cuore stesso dell'Occidente.

Il vero problema è che, spinti spesso dai migliori sentimenti, i governi americani hanno inviato le proprie truppe ovunque, con lo scopo di estirpare tutti mali del mondo. Il risultato che hanno ottenuto, però, è stato di seminare morte e distruzione: e chi semina vento, si sa, raccoglie tempesta. Con la convinzione di esportare le proprie libertà repubblicane, gli Stati Uniti hanno costruito un impero. Esso, scrive ancora Sobran, "è oggi un impero globale, che vuole pensare a se stesso come a un benefattore universale, e restano sconcertati quando scoprono che gli stranieri non la vedono così. Nessuno dei precedenti imperi del mondo, per quanto ne so, ha subito la stessa delusione; i romani, i mongoli, gli inglesi, i russi e i sovietici non si aspettavano di dominare e, al tempo stesso, essere amati. Perché noi lo facciamo?".

Sentimenti analoghi vengono espressi - e non da ieri - da molti cittadini. E uniscono, per una volta, i libertari più intransigenti, come Lew Rockwell e Ralph Raico, agli eredi della "vecchia destra" (l'ultimo libro di Pat Buchanan si intitola "Una repubblica, non un impero") e agli esponenti della sinistra radicale, come Gore Vidal. Quella del non-interventismo, inoltre, è la vecchia tradizione americana. Il motto del presidente George Washington e dei suoi successori, per quanto riguarda la politica estera, era: buoni rapporti con tutti, stabili alleanze con nessuno. Henry Clay definiva gli States la "lampada che arde sulla riva occidentale", con ciò intendendo che l'America doveva essere la guida morale, non il dittatore del mondo.

Non è importante, insomma, quello che accadrà nell'immediato futuro. E' anzi doveroso che il responsabile della tragedia venga trovato e schiacciato. Si parla di Osama bin Laden; lo si ammazzi, senza troppi pensieri. Che sia o no l'autore del dirottamento degli aerei, ha già commesso crimini sufficienti a giustificare questo e altro. L'augurio da rivolgersi è che George W. Bush abbia la forza di mantenere le proprie promesse elettorali: di ritirare le truppe americane del mondo, e di schierarle solo dove sono davvero in gioco gli interessi e i diritti dei cittadini americani. Il paese a stelle e strisce deve fare appello a tutta la sua storica grandezza; esso deve chiamare tutte le proprie forze. Bisogna che il popolo sia saldo nella propria fede, che la nazione riesca a sfruttare al meglio i propri anticorpi libertari, che il governo sappia esercitare, lealmente e in modo illuminato, i propri poteri. Senza trasformare la tragedia nell'ennesima scusa per sottrarre libertà ai cittadini e imprimere all'ordinamento istituzionale una nuova virata centralizzatrice e militarista. Oggi più che mai, Dio benedica l'America.

tratto da Ideazione.com

 

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