W. Bush: da "piccolo" presidente dell' America profonda, a "capo" della coalizione globale anti-terrorista

Il 20 gennaio, quando prendeva possesso della Casa Bianca, George W. Bush era il Presidente “di minoranza”, per così dire, di un Paese diviso. Il successore di Clinton arrivava a Washington sull’onda delle polemiche sui presunti brogli in Florida. Sconfitto per una manciata di suffragi dall’insipido Al Gore, nel “voto popolare”, s’era rifatto conquistando la maggioranza degli “states” americani, che sono quelli che spalancano i cancelli di Whitehouse.

Tuttavia, bastava uno sguardo veloce alla cartina geografica per notare uno squilibrio, evidente. L’America profonda, l’America vera, aveva votato compatta per il suo beniamino, questo figlio d’arte che prometteva un taglio netto alle imposte, e di riportare a casa i soldati dalla folle guerra nei Balcani. Invece l’America meticcia e decadente, New York e la California, guardava con apprensione all’ingresso del cowboy nella stanza dei bottoni.

Rocco Ronza, sulla rivista “Enclave”, ha osservato come quella che aveva portato Bush al potere fosse una forza nuova, “sottovalutata dalla sinistra liberal e post-industriale, chiusa nelle capitali nazionali e globali e ingannata dai suoi stessi pregiudizi ma anche dalla destra più “rispettabile”, incapace di uscire dal cono d’ombra dell’avversario”. Con Bush al governo, veniva polverizzato il potere ricattatorio dei salotti buoni, e di quei bizzarri personaggi che, voltata gabbana, spingono la destra a scimmiottare la rive-gauche (il nostro Paese ne è pieno, gli States pure).

L’11 settembre, improvvisamente, l’America è apparsa di nuovo un Paese unito, compatto attorno al suo Presidente. La bandiera che sventolava mesta a mezz’asta, l’eroismo dei pompieri newyorkesi strappato a un film di Capra, la sagoma abbacchiata e ruggente di Rudolph Giuliani, il discorso di Bush, il più bello e toccante dai tempi del “grande comunicatore” Reagan: tutto questo ha spinto i commentatori a scrivere che gli Usa avevano dimenticato liti e sgambetti, distinguo e perché, e finalmente quel cuore grande che è il grande cuore degli americani cantava di nuovo una vecchia canzone.

C’è del vero. L’America oggi è unita; però resta un’America diversa da quella di 5, 10 anni fa.

L’operato dell’amministrazione Bush riflette questa realtà, e quel 90% di popolarità che “DoppioV” s’è conquistato sta lì a dimostrare che si sa muovere bene, meglio di quanto immaginino gli osservatori europei.

Il dato fondamentale è che il miraggio di un’invasione su larga scala dell’Afghanistan sembra allontanarsi. Sì, al Congresso Bush ha parlato dei talebani come la più grande minaccia per la libertà dopo “fascismo, nazismo e totalitarismo” (quest’ultimo, sulla bocca del Presidente, è un eufemismo per comunismo), ma allo stesso tempo Colin Powell ha meticolosamente spento ogni fiammella che lasciasse presagire una ritorsione gratuita. Ammettendo che “la natura del regime in Afghanistan non è un nostro problema, e non è intenzione degli Stati Uniti rimuoverlo né sostituirlo con un altro”.

Uscite di questo tipo hanno aperto un dibattito, che è ancora sotterraneo, ma squarcia l’elite americana e dimostra quanto composito, vario, sia l’universo della destra a stelle e strisce.

Gli intellettuali “neoconservatori”, personaggi approdati fra i repubblicani dopo una lunga militanza nella sinistra comunista, storcono il naso. E hanno già cominciato a puntare la colomba Powell.

Del resto Powell non è un bombarolo da salotto, la guerra l’ha vissuta. Pondera ogni azione, ogni movimento militare con la prudenza del caso. In più, ha dalla sua un certo ottimismo e una fede genuina in una libertà clemente. In un libro, ha dettato i suoi “tredici comandamenti”. Ne faccio una breve antologia, perché dell’uomo dicono qualcosa. “Le cose non sono brutte come credi: domani andranno meglio”. “Non puoi scegliere per un altro, non permettere a un altro di scegliere per te”. “Non farti consigliare dalle tue paure”.

Il segretario di stato non si fa consigliare neanche dalla rabbia. Vuole giustizia, non vendetta. E’ un pensiero morale, ma anche un ragionamento politico: la tentazione imperiale è ormai archiviata nelle coscienze americane.

L’elettore di Bush, e l’americano in genere, forse non quello che pasteggia a champagne a New York ma senz’altro quello che stappa Coca-Cola ad Atlanta, è più diffidente verso il ritorno in auge del militarismo. Il Presidente avrebbe potuto rimescolare le carte: se avesse colpito, con ferocia e decisione, un qualsiasi staterello arabo nei primi giorni dopo l’attacco alle Twin Towers la pubblica opinione l’avrebbe sostenuto.

Invece ha sfatto sbollire certe reazioni emotive, e si prepara ad agire con calma, con obiettivi chiari e circostanziati. Non solo: il bushismo ortodosso, dopo l’11 settembre, s’è ben guardato dal prefigurare crociate religiose o scontri di civiltà, lasciate ai fuochi fatui della pubblicistica d’assalto. E’ stato un sussulto di umanità quello che ha portato Bush ad andare in moschea, a dire che l’ “Islam è la religione della libertà”, a lanciare un messaggio. Lo stesso che è stato portato ai Paesi arabi moderati.

Adesso l’America si erge a guardiana della pace in Israele, ma non una pace a senso unico. Bush rintuzza le speranze di Perez, e intende costringere arabi ed ebrei a parlarsi. Per questo non piace a certe elites conservatrici, gli intellettuali vicini alla rivista “Commentary”. Non piace loro perché si tratta di un centro di potere filo-sionista, che Norman Podhoretz negli anni ha utilizzato per imporre una politica schiacciata su Israele ai repubblicani. Ma siamo al senso del testo di Ronza, Bush ha liberato la destra americana dalla dittatura di questi salottieri insensibili e assassini, di questi trotzkisty che hanno voltato gabbana senza cambiare idea.

Bush è un’altra destra, un’altra America. Come quella di Condoleeza Rice, che  ha ritrovato pieno accordo con Powell, e cercheranno assieme di limitare la reazione americana a un qualche cosa di misurato, ponderato, giusto.

Tanto basta a certi neoconservatori per bollare il Presidente come “appeaser of terrorists”, uno che fa concessioni ai terroristi. Sono solo parole: la guerra fredda è finita, e certi svolazzamenti intellettuali hanno perso fascino. Intanto, il bushismo è al lavoro: riunisce attorno a sé i grandi del pianeta, esporta non morte ma distensione, persino con la Cina, che è entrata nel Wto ed è tornata amica. George Bush il pacificatore? Chissà, ma non suona male.

Alberto Mingardi