Ciriello, il fotografo free-lance sotto le bombe "democratiche"

Raffaele Ciriello è morto una settimana fa, ma sembra passato un mese, un anno. Si fosse chiamato Maria Grazia Cutuli, con rispetto parlando, staremmo ancora a piangerlo e a parlarci addosso. Invece, solo silenzio – un silenzio che non è rispetto, ma puzza d’ipocrisia.

E’ vero, i giornali sono stati travolti dalla pruderie del caso Cogne, dal gioco è-stata-lei-oppure-no, e sul versante politico da questo farsesco tiro alla fune sull’articolo 18, con l’inevitabile contorno di dichiarazioni trite ed improponibili proclami. Epperò questo non scusa quell’etereo “nulla” che ha soffocato il dramma di Ciriello.

Ci siamo tutti commossi, e spaventati, e indignati per la morte della Cutuli: la gente le portava fiori, stringeva la mano ai parenti, i coccodrilli ce l’hanno raccontata metà Giovanna d’Arco e metà Kim Basinger, una Lara Croft del giornalismo, sveglia, dura. “Maria Grazia” (i morti da prima serata sono tutti amici di famiglia) è diventata un’icona, la sua foto è svolazzata qua e là per le pagine dei giornali per chissà quanti giorni – negli Usa abbiamo assistito a un fenomeno analogo per Daniel Pearl ed anche per Barbara Olson, sepolta a Ground zero.

Per “Raffaele” ci si è limitati al cordoglio del Presidente del Consiglio e a qualche articolo di circostanza, frasi garbate e vestite a lutto, ma inesorabilmente distanti. Eppure, a ben guardare, la sua vicenda sa di tragedia molto di più di quella di Maria Grazia: la Cutuli era in Afghanistan ed in guerra, i rischi le erano ben noti sin da principio, e non ha lasciato figli né un marito. Ciriello era in un luogo dove le possibilità che l’esercito prendesse di mira i reporter erano assai inferiori, il rischio era decisamente più limitato, e si lascia dietro una moglie giovane e una bambina di un anno appena, che crescerà con la foto del padre sul comodino e nient’altro che nemmeno un ricordo, la sua ombra.  Ma non è bastato a commuoverci.

Perché? Le risposte, a mio avviso, sono due: la prima è che Raffaele Ciriello era un free-lance, e un fotografo. Maria Grazia Cutuli una giornalista patentata.

Il nostro è il Paese dell’articolo 18, della cultura del posto fisso, della dittatura degli ordini professionali: che muoia un free-lance, cioè un elemento dichiaratamente anomalo rispetto al sistema, è quasi una vittoria, sembra un prodotto della selezione naturale.

Nonostante la nostra sia la civiltà dell’immagine, dove con uno scatto di Oliviero Toscani, con un ciak di Franco Zeffirelli si dice “di più” a “più persone” che con qualsiasi articolo su qualsiasi quotidiano, sono ancora i giornali (e i giornalisti) a “fare opinione”. La categoria dei fabbricanti di parole di frustrazioni ne accumula, in una società che la premia e la considera sempre meno: ma situazioni come questa offrono facile facile un’occasione di rivalsa. La Cutuli sugli allori, Ciriello cenere era e cenere è ritornato: i fotografi “muoiono di meno”, occupano un posto meno saldo nella corporazione mediatica, servono solo ad illustrare articoli scritti da altri.

I media hanno celebrato Maria Grazia perché, nel bene nel male, era “una di loro”: della stessa razza di quelli che poi finiscono per fare i direttori dei giornali o dei tg. Raffaele era in serie b.

Ma questa è ancora la motivazione più comprensibile, e quella più palese.

E’ vero che i giornalisti cambiano la testa della gente, ci inseriscono slogan e parole d’ordine – ma questi slogan e queste parole d’ordine sono ritagliati su concetti che i media non producono, si limitano a divulgare. Sono venditori di auto usate: raccontano verità consolidate, ideologie precotte. I fabbricanti di parole sono al servizio dei produttori di idee.

Queste idee per imporsi non hanno bisogno di essere giuste, né vere - basta che siano popolari, “comode”. La sinistra detiene il sudato monopolio della loro produzione: e frantumatesi certe vecchie utopie, è stata bravissima (in fase Terza Via ed Ulivo mondiale) a riciclarsi con la scusa dell’umanitarismo. Ne è uscito un dogma nuovo: le democrazie, ci hanno spiegato, non si fanno guerra l’una con l’altra. Corollario: nel momento in cui una guerra è fatta per “esportare la democrazia”, non è più una guerra, perché una volta “esportata la democrazia” regnerà la pace. Di qui la ridicola definizione di “peacekeeping” per missioni in realtà assassine, e la soverchia giustificazione “morale” di interventi come quelli in Iraq, in Somalia e in Kossovo.

Bombardamenti e sparatorie si giustificano così, democrazie da una parte, resto del mondo dall’altra. E’ il derby del millennio –ogni volta che c’è un nuovo nemico da colpire, guardacaso veniamo rassicurati sul fatto che “non ha un governo democratico”. Come dire, vai col rock ‘nd roll.

I giornali (con qualche lodevole eccezione) sono oggi un prodotto confezionato secondo i principi del politicamente corretto. Così, hanno fatto in fretta a trasformare la lotta al terrorismo in un’altra guerra “democratica”: gli afghani sono diventati “cattivi” non perché dessero asilo a Bin Laden, ma perché non accettavano la retorica dei diritti umani. Eretici: e la Cutuli (come Pearl, come la Olson) si è rivelata  provvidenziale il martire di cui la Chiesa democratica aveva bisogno.

Ciriello invece è stato ucciso da uno Stato assai discusso, ma che senz’altro fa parte del club delle democrazie. Poco importa che la maggioranza della nostra stampa non sia certo filoisraeliana: ammettere che le pistole democratiche sparino quanto quelle dei “non-democratici” afghani avrebbe significato opporsi al pensiero dominante, rigettare la rassicurante illusione che la democrazia è il migliore dei mondi possibili. Roba da pierini impertinenti, mica da grandi firme.

Alberto Mingardi

tratto da Libero del 20/1/02

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