La democrazia? Un mito da sfatare

di Carlo Lottieri

Uno dei miti più radicati nell’epoca contemporanea è quello secondo cui la democrazia politica dovrebbe essere considerata il punto di arrivo della storia: quel non plus ultra che segnerebbe il compimento dell’umana ricerca di un ordine giusto, in grado di tutelare le libertà individuali e assicurare a tutti pace e sicurezza. Trattandosi di un vero e proprio tabù, pochi hanno il coraggio di metterlo in discussione, dal momento che le conseguenze derivanti possono essere molto gravi. Mentre essere definito “socialista” è per molti motivo d’orgoglio e soddisfazione, la qualifica di “anti-democratico” è ormai (né più, né meno) un insulto bell’e buono. Chi non accetta di essere democratico, oggi, è letteralmente considerato un incivile: come quanti si ostinano a mangiare con le mani o poggiano le scarpe sopra il divano.

Fortunatamente qualche dissidente, qua e là, ancora lo si può trovare. Nell’università di Las Vegas, ad esempio, insegna da alcuni anni Hans-Hermann Hoppe, studioso tedesco già allievo di Habermas a Francoforte e poi “pupillo” di Murray N. Rothbard, il più coraggioso e coerente difensore della proprietà privata e del mercato che il ventesimo secolo abbia conosciuto. In numerosi suoi scritti, Hoppe ha voluto analizzare con spietato rigore e straordinaria onestà intellettuale le logiche più profonde della democrazia, scoprendo come – al di là dei proclami e della retorica – i regimi democratici siano spesso più illiberali e tirannici di molti altri del passato (che pure democratici non erano) e che comunque non possono in alcun modo giudicati l’orizzonte ultimo della storia dell’umanità.

Hoppe evidenzia, in particolare, che le nostre democrazie sono Stati. E quindi che esse sono organizzazioni monopolistiche della forza le quali usano tale loro potere per imporre decisioni particolari (regolamentazione) e sottrarre risorse (tassazione ed esproprio). Rispetto agli Stati pre-democratici, inoltre, gli ordini oggi vigenti possono avvalersi di una più solida legittimazione: in questo modo, essi ci raccontano la favola bella secondo cui “lo Stato siamo noi”, tanto che ogni ampliarsi dei suoi poteri non ci indebolirebbe, ma anzi ci farebbe uscire rafforzati. Mentre i vecchi ed arcigni sovrani disponeva di un dominio largamente riconosciuto come arbitrario e quindi si scontravano con un forte resistenza popolare, oggi la logica democratica tende a fare accettare ogni limitazione della libertà ed ogni sottrazione di denaro.

Non è certo casuale che la tassazione non arrivasse al 10% al tempo dei vecchi regimi (prima della Rivoluzione francese), mentre la democratizzazione della società ha permesso l’espandersi del Leviatano e l’insignorirsi progressivo della classe politica. Lo stesso totalitarismo, la cosa non andrebbe mai dimenticata, si è imposto proprio in società democratizzate e, in qualche caso (si pensi a Hitler), proporio grazie ad appuntamenti elettorali. È la democrazia di Weimer che ha predisposto quell’apparato di cui il nazionalsocialismo, nel 1933, si impadronirà.

Perché questo è un altro dato che Hoppe richiama alla nostra attenzione: lo Stato democratico non è di tutti, ma è (in maniera quanto mai evidente) una struttura di potere facilmente condizionata dai gruppi di pressione più potenti. Coloro che controllano i partiti, i media, le grandi imprese e le strutture finanziarie, le principali agenzie culturali o morali e le più potenti centrali sindacali sono in condizione di favorire l’approvazione di norme favorevoli ai loro interessi. Lo Stato quindi si espande in virtù dell’illusione che il potere sia da tutti condiviso, mentre appare sempre più vero quanto scriveva un grande politologo siciliano di primo Novecento, Gaetano Mosca: “Non sono i cittadini ad eleggere i politici; sono i politici che si fanno eleggere dai cittadini”.

Ma cosa propone, per superare questa impasse, l’iconoclasta Hoppe? La sua tesi è che si deve cercare di restituire il massimo spazio possibile al mercato, alla tutela dei diritti individuali, alla responsabilità dei singoli. Per Hoppe democrazia significa socialismo: quando una decisione è affidata al cosiddetto gioco democratico, infatti, noi abbiamo già espropriato gli individui della loro facoltà di scegliere e abbiamo consegnato allo Stato il controllo di quel settore. Una scuola “democratica” – ad esempio – è una scuola pubblica (statizzata), in cui tutti sono costretti a finanziare gli stessi insegnanti e a ricevere, per i loro figli, le stesse lezioni.

Egli contrappone quindi democrazia e liberalismo, sostenendo che dove la prima si rafforza il secondo è destinato ad indebolirsi. E questa provocazione è tanto più importante per una realtà come quella svizzera, da un lato fedele alla propria struttura federale (pluralistica, localistica, competitiva) e al tempo stesso, però, fascinata dalla retorica della volontà generale: magari sotto forma di votazioni popolari su temi specifici.

Per mostrare come la democrazia non possa essere un totem, ma debba invece essere razionalmente e criticamente esaminata, Hoppe suggerisce al lettore un esperimento mentale tanto più interessante in queste settimane, durante le quali molti commentatori ci vorrebbero convincere del fatto che l’Onu avrebbe bisogno di un ruolo maggiore e che la globalizzazione economica avrebbe bisogno di integrazioni “politiche”, di istituzioni giuridiche di livello universale. Cosa ci dice Hoppe? Che se la democrazia è, in sé, una cosa buona, essa non dovrebbe essere confinata in piccole realtà nazionali o cantonali. Se le attuali democrazie “locali” fossero una buona cosa, ancora migliore dovrebbe essere una democrazia mondiale, gestita da un parlamento eletto direttamente dall’intero genere umano.

Ma come opererebbe, si può presumere, tale parlamento globale? Con ogni probabilità, suggerisce lo studioso tedesco, al suo interno finirebbe per emergere una maggioranza numerica composta dagli eletti dell’India e della Cina (numericamente preponderanti), i quali constaterebbero che alcune piccole aree del globo (Nord America, Europa, Estremo Oriente) dispongono della quasi totalità delle ricchezze universali e quindi svilupperebbero una politica distributiva ed assistenziale. Prenderebbero soldi ai californiani, insomma, per darli a quanti vivono in Maciuria o a New Dehli.

Come potremmo definire tutto ciò? In poche parole, come una rapina legalizzata. Ed è comunque in tal modo che già ora operano, ad ogni latitudine, i regimi democratici: dal momento che vi è una parte della popolazione (quella politicamente più debole, i “pagatori di tasse”) che dà più di quanto non riceva, mentre la parte restante (quella politicamente più forte, i “ricettori di tasse”) riceve più di quanto non dia.

C’è qualcosa di nobile o di morale in tutto questo? Non penso proprio. I contribuenti svizzeri pongano mente alla vicenda della Swissair e traggano, da quell’episodio, conseguenze non banali. Ci sono responsabilità personali, colpe di questo o quel partito, comportamenti vergognosi da parte di questo o quell'organo di informazione. Certamente. Ma c’è un problema più radicale che quella vicenda aiuta a vedere ed è, appunto, il permanere ed il rafforzarsi della vecchia logica di dominio all’interno dei sistemi politici democratici.

Quanti hanno la fortuna di vivere in Svizzera e di apprezzare le peculiarità di tale organizzazione sociale, allora, dovrebbero impegnarsi per consolidare quanto più è possibile la libertà di mercato e la concorrenza tra comuni e cantoni (anche avversando le perequazioni assistenzialistiche “a favore” ora di Lugano e in futuro dei comuni più piccoli, oggi dei cantoni di un certo tipo e dopodomani dei cantoni di un altro tipo, e così via). È nel permanere di bilanci indipendenti e ampie facoltà normative locali che il sistema elvetico mostra tutta la sua forza ed il suo dinamismo, molto più che nella facile retorica sulla comunità organica e sulla Landsgemeinde.

Hoppe ci dice che la democrazia può essere uno strumento molto affilato contro le nostre libertà: forse è il caso di ascoltare con interesse la sua lezione.

Chi volesse approfondire le tesi di Hoppe può leggere: Hans-Hermann Hoppe, Abbasso la democrazia! L’etica libertaria e la crisi dello Stato (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 2000; lire 15 mila, leofacco@tin.it; tel. 39 – 335 – 80.82.280); Hans-Hermann Hoppe, Democracy – The God That Failed. The Economics and Politics of Monarchy, Democracy and Natural Order (New Brunswick – London: Transaction, 2001; www.mises.org).

 

tratto da "La gazzetta ticinese"

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