Disobbedire ai tiranni è obbedienza a Dio.

Il diritto di resistenza in Gianfranco Miglio

 Carlo Stagnaro

Introduzione

Se la vita, le opere e il pensiero di un uomo hanno un senso, questo va ricercato nell’eredità che gli altri hanno raccolto, o nel bene e nel male che quell’uomo ha commesso o aiutato a commettere. In una nota battuta, Milton Friedman affermò che il Mein Kampf di Adolf Hitler aveva ucciso più uomini e donne di tutto il fumo del mondo: con ciò intendendo che tale banale constatazione non sarebbe stata comunque sufficiente a giustificare una legge che rendesse obbligatoria la dizione “Nuoce gravemente alla salute” sulla copertina del libello nazista. Pur essendo scherzose, le parole dell’economista americano aiutano a costruire un criterio, che tenga conto tanto dell’aspetto morale quanto dell’efficacia e dell’effetto pratico, per valutare in qualche maniera l’eredità di una persona.

I libri di Gianfranco Miglio non hanno mai ucciso nessuno, né hanno spinto altri a uccidere o richiesto a qualcuno di morire. Già questo sarebbe sufficiente a porre il suo nome una spanna sopra a quelli dei tanti autori che, nel corso dell’ultimo secolo, hanno intinto nell’altrui sangue la propria penna. Miglio, piuttosto, ha invitato propri concittadini ad affrontare con un approccio realistico il mondo che li circondava.

Al suo attivo, egli ha anche una encomiabile opera di divulgazione: Miglio è stato capace di scendere dalla torre d’avorio dell’accademia e parlare alla gente, con la gente, come la gente. Lo studioso lombardo non ha avuto paura, quando lo ha ritenuto necessario, di ammettere i propri errori, né ha esitato a rivendicare i propri giusti meriti. E’ stato, in altre parole, uno di quegli “uomini eccezionali” che, secondo Thomas Jefferson, sanno muovere le grandi ruote della storia grazie alla potente leva delle idee.

Tra le tante opere del professore, una riveste una particolare importanza, sia per il proprio valore intrinseco che per l’ampia diffusione che ha potuto sperimentare. Si tratta del pamphlet sulla Disobbedienza civile[i], in cui l’omonimo saggio di Henry David Thoreau viene affiancato a un brillante scritto di Miglio.

Un primo ed evidente merito del libro è l’aver saputo presentare a un pubblico amplissimo (la collana in cui venne pubblicato – e disgraziatamente mai ristampato – è Oscar Mondadori) il pensiero del polemista americano, che fino ad allora era pressoché sconosciuto a sud delle Alpi. La sua circolazione, infatti, era limitata ad alcuni circoli intellettuali che, peraltro, non di rado ne fraintendevano le parole, accostate con eccessiva disinvoltura a quelle di Bakunin, Kropotkin e altri anarchici europei. Non a caso, il testo è stato ripreso (non senza taluni rilievi critici verso Miglio) e pubblicato con Vita senza principi (dello stesso autore) in un libro a cura di Luca Michelini[ii], che ha potuto approfittare dell’uscita dal catalogo della grande casa editrice milanese.

In realtà, qualcuno aveva già potuto leggere Thoreau grazie al meritorio lavoro di Rudolf Rocker, sebbene questi ne presentasse l’opera piuttosto che antologizzarla, e comunque non la fornisse in versione integrale. Tuttavia, la portata rivoluzionaria delle sue parole aveva sempre tenuto il saggista americano ben lontano dal grande pubblico. Rocker stesso aveva capito perfettamente la situazione, allorché scriveva che Disobbedienza civile “è il credo di un uomo veramente libero, per il quale la tradizione non può oscurare il senso vivo della realtà. Come Garrison, Thoreau riconosce l’effetto controproducente di una tradizione ormai morta allorquando, trasformatasi in un dogma fissato, non è più in grado di fornire nuovi stimoli per ulteriori sforzi creativi. Sottile pensatore, egli era profondamente conscio che il maggior pericolo di ogni epoca non risiedeva nell’aspirazione al potere da parte degli uomini vivi, ma nei dogmi e nelle istituzioni ereditate dalle passate generazioni che l’atteggiamento riverente non osa rimuovere”[iii].

Pure Miglio aveva ben chiaro questo aspetto, e certo non ne aveva sottovalutato la potenziale carica rivoluzionaria. L’Italia, infatti, si regge proprio sulla venerazione nei confronti degli sforzi di uomini passati per unirla; il principale argomento retorico a difesa dell’Unità dello Stato era ed è “il sangue versato” nella sua edificazione. Tale dogma, consolidato anche attraverso menzogne o letture parziali della storia grazie all’opera livellante della scuola pubblica, costituisce l’autentico presupposto della tirannia dei morti sui vivi, appena mascherata dalla democrazia formale e dallo scontro elettorale.

L’idea di proporre Thoreau a un pubblico vasto, dunque, era già – in sé e per sé – lodevole e coraggiosa. Miglio fece di più: comprese che Thoreau sarebbe stato il classico “uomo giusto al momento giusto” e seppe sfruttare appieno questa consapevolezza. Il libro uscì nel 1993, proprio quando il ciclone di Tangentopoli aveva violentemente investito la classe politica e aveva determinato la “caduta degli dei”. I cittadini avevano perso ogni fiducia nella politica e nello Stato e avevano bisogno di comprendere il significato profondo del proprio disgusto verso tradizioni divenute dogmi.

Il professore fornì loro quello che mancava, spiegando che non solo il ceto politico rappresenta “il male”, ma che “il bene” è addirittura incompatibile con l’apparato burocratico che pretendeva di agire nel loro stesso interesse. L’Italia non andava riformata, ma distrutta e rifondata: con o senza l’assenso dei politici e senza il timore di infrangere il mito dell’Unità. Non bisogna aver paura di disobbedire a leggi ingiuste – insisteva Miglio –, perché, come scrive Thoreau, “sotto un governo che imprigiona chiunque ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto è la prigione”[iv]. (La presa di posizione di Miglio a favore della disobbedienza civile e della resistenza fiscale gli guadagnò una denuncia penale da parte dell’allora Ministro della giustizia Claudio Martelli).

A questi tre indubbi meriti (l’aver presentato Thoreau a un pubblico ampio, l’aver importato e sostenuto idee nuove ed eretiche, e l’averlo fatto nel momento giusto) va aggiunta una constatazione. Con Disobbedienza civile Miglio segna decisamente la propria adesione alle correnti più rivoluzionarie del pensiero libertario. Le sue parole, infatti, non sono in alcun modo riconducibili alla difesa della statualità: “qui i temi dell’analisi libertaria contemporanea – osserva Giuseppe Motta – sono affrontati con una lucidità e una chiarezza ineguagliabili. Dal rifiuto della logica predatoria dell’imposizione fiscale, alla denuncia dell’inamovibilità e irresponsabilità della classe politica, alla dittatura delle maggioranze, al fallimento del costituzionalismo liberale, alla farsa del controllo dei governanti, alla realtà dello Stato moderno”[v].

E’ ovvio, d’altra parte, che il libro del 1993 non segna un cambiamento brusco nel pensiero del politologo lombardo: che, come è naturale, ha conosciuto una propria crescita ed evoluzione. Il suo sentiero culturale, infatti, lo ha condotto – a partire dal realismo politico schmittiano – fino al libertarismo rothbardiano. Sebbene dunque non si possa parlare di “svolta”, è pur possibile identificare il momento in cui quell’invisibile linea che separa i libertari dai non-libertari è stata, al di là di ogni ragionevole dubbio, valicata. Certamente vi è un ampio territorio in cui ci si trova in bilico tra le due posizioni. Con Disobbedienza civile Miglio – per parafrasare uno slogan politico fortunato quanto recente – fa “una scelta di campo”.

Da quel momento in poi, egli riconosce nelle soluzioni offerte dal libertarismo una possibile via per salvare la civile convivenza degli uomini. Affinché questa strada possa essere percorsa, però, è necessario abbandonare le vecchie strutture politico-burocratiche, ovvero la pesante eredità di un’epoca – quella della statualità – che, secondo il politologo lombardo, sta volgendo al termine. E’ però interessante notare come Miglio sia giunto a questo genere di considerazioni evitando accuratamente ogni scelta valoriale, ma solo per ragioni scientifiche: “senza esprimere un giudizio di valore”, come amava precisare, perché “tutti i sistemi politici si autogiustificano”.

Intervistato su questo tema, lo studioso lombardo affermò che lo Stato moderno non è solo inefficiente e immorale, ma anche superato: “Lo Stato moderno è in pieno declino. Il nostro compito è saper riprendere la tradizione autentica dell'Europa delle città, dell'Europa del periodo anseatico... si trattava di città indipendenti che facevano capo al Sacro Romano Impero soltanto per dirimere conflitti tra di loro. L'Europa dell'avvenire non è l'Europa dello Stato moderno, che ha prodotto le guerre spaventose del nostro secolo. Tutto questo è da dimenticare”[vi]. In altri termini, si può affermare che con Disobbedienza civile Miglio abbia accettato, sulla base di attente valutazioni teoriche ed empiriche, le istituzioni suggerite dai pensatori libertari come efficace alternativa allo Stato nazionale moderno.

In questo scritto verrà analizzato il significato e il ruolo del libro del 1993, mettendolo in relazione con le riflessioni successive. In primo luogo si mostrerà come Miglio abbia teorizzato la disobbedienza civile come un diritto individuale. Solo in seguito esso diviene collettivo, per ragioni di efficacia e per la libera e volontaria adesione dei cittadini. Nell’ottica del diritto di resistenza, è possibile capire anche la natura e rintracciare l’origine del diritto di secessione.

Il diritto di resistere

Secondo l’intera dottrina politica occidentale, il diritto di resistenza sorge quando un governo assume atteggiamenti tirannici verso i propri cittadini. Esso può addirittura divenire diritto alla resistenza armata – all’insurrezione – se non vi è altra via per eliminare l’oppressione cui il popolo è sottoposto. “In tutti gli ordinamenti “liberi” – scrive Miglio – viene generalmente riconosciuto il diritto dei cittadini a “resistere” a una costrizione illegittima. Ma questo “diritto di resistenza” – che si trasforma presto in “diritto di insorgere” – è giustificato soltanto nei confronti di una autorità tirannica, verso detentori del potere che non riconoscano ai cittadini (trasformati in sudditi) le garanzie e le prerogative rispettate invece negli altri paesi civili: e che tale comportamento iniquo assumano originariamente oppure violando i patti conclusi e sospendendo l’ordinamento vigente”[vii].

E’ del tutto evidente, da tali premesse, che Miglio non si riferisce alla semplice violazione, occasionale e isolata, di alcuni diritti dei cittadini da parte del governo. Per questo, non di rado le Costituzioni sono riuscite a escogitare strumenti di auto-difesa dell’individuo che ha la possibilità di far valere le proprie ragioni senza doversi trovare ipso facto al di fuori o al di là della legge.

Piuttosto, le domande che bisogna porsi sono più stringenti e più profonde: “Quando i cittadini sono moralmente giustificati a violare o a resistere – così formula il problema Jeff Snyder –, con tutti e ciascuno i mezzi necessari, alle leggi del proprio paese? Quando l’intero governo – e non semplicemente questa o quella legge in particolare – diviene tirannico e illegittimo?”[viii]. E’ lo stesso Miglio, indirettamente, a fornire una risposta, quando scrive che l’uso della violenza da parte dei cittadini è senz’altro legittimo allorché esso avviene contro “una esplicita e dichiarata, oppure mascherata, sospensione dell’ordine costituzionale, o di una parte di esso”[ix].

Quello che va sottolineato è il carattere individuale del diritto di resistenza. Miglio, infatti, parla della “sospensione dell’ordine costituzionale”. Ovviamente questo non è un crimine in sé: la sospensione dell’ordine costituzionale sovietico o di quello nazista, ad esempio, avrebbe (e ha) portato a un regime più libero. Tale azione diviene criminale quando ha l’effetto di infrangere il contratto che lega i cittadini alle istituzioni – ovvero slega la tassazione dalla rappresentanza, per riprendere la terminologia della Glorious Revolution. Il fatto è che vi sono alcune “prerogative elementari e indisponibili che ogni individuo – quando accetta di convivere con altri e quindi di sottostare alla convenzione e alle conseguenze della “maggioranza” – non “conferisce” e non assoggetta tuttavia alla logia di tale rapporto… Ma è anche vero che, dovunque esistono uomini liberi, questi non accettano facilmente di essere privati dei diritti naturali (e dunque indisponibili) mai alienati volontariamente a nessuna autorità”[x].

In una recente intervista, Gianfranco Miglio ha ben espresso il senso di tali affermazioni: “In quel libro [Disobbedienza civile] io difesi il principio della libertà individuale. Si tratta di un pamphlet in chiave ribelle, perché ho voluto chiarire che in nessuna Costituzione, in nessun ordinamento si può stabilire un vincolo permanente che sia “per sempre”. I principi di una determinata Costituzione federale vengono fissati, ma possono essere modificati. Difendendo la libertà di decisione dei singoli (e il diritto di ribellarsi a un ordine iniquo forzosamente imposto dallo Stato), volevo sottolineare come i cittadini si vincolano liberamente, costituendo liberamente strutture federali solide quanto si vuole ma naturalmente suscettibili di modificazione. Senza, peraltro, che questa variabilità ne intacchi la stabilità”[xi]. E’ del tutto evidente, insomma, come al centro del pensiero migliano siano l’individuo e la sua libertà: e che la preferenza per i sistemi federali sia dovuta anche alla loro caratteristica intrinseca di rispecchiare maggiormente i desideri e le aspirazioni delle piccole comunità, entro le quali l’individuo, appunto, ha una maggiore possibilità di influire sulle scelte del governo.

Alla luce di queste precisazioni, l’esplicito riferimento di Miglio a John Locke assume un aspetto nuovo e forte. Al filosofo inglese, infatti, non si deve solo la bella definizione del diritto di resistenza come “appello al Cielo”, ma anche una ampia e dettagliata teorizzazione dello stesso, delle ragioni che ne determinano l’insorgere e delle modalità in cui esso può essere esercitato.

Quanto gli abusi del governo “hanno colpito la maggioranza del popolo – egli afferma –, o il danno e l’oppressione hanno toccato solo alcuni, ma in cose tali che precedenti e conseguenze sembrano minacciare tutti; e se si è persuasi in coscienza che le proprie leggi e con esse i propri beni, la propria libertà e vita sono in pericolo, e così pure forse la propria religione, io non saprei dire come si possa impedire al popolo di resistere alla forza illegale che viene usata contro di esso”[xii]. Locke non manca di rilevare che, ad ogni buon conto, gli uomini devono evitare di farsi travolgere dal panico e rovesciare, senza valide ragioni, istituzioni da lungo tempo insediate.

“Grandi errori da parte dei governanti – prosegue infatti l’autore dei Due trattati sul governo –, molte leggi sbagliate e inopportune e tutti i cedimenti dovuti a debolezza umana saranno sopportati dal popolo senza sedizioni o lagnanze. Ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni ed espedienti, tutti tendenti al medesimo fine, rendono manifesta al popolo una trama; ed esso non può non avvertire ciò che su di esso incombe, e non vedere da quale parte sta andando; non stupisce allora che esso si scuota e tenti di portare il potere in mani capaci di garantire i fini in vista dei quali il governo fu originariamente istituito, e senza di cui nomi antichi e istituzioni formali sono così lontani dall’essere migliori dello stato di natura o della pura anarchia, che sono addirittura peggiori, dal momento che gli inconvenienti sono tutti altrettanto gravi e incombenti, ma il rimedio più remoto e difficile”[xiii].

Le argomentazioni di Locke vengono pienamente accolte dai Padri Fondatori americani – interpreti, guarda caso, di una Rivoluzione nata come contestazione fiscale e conclusasi con una secessione. La Dichiarazione di indipendenza inizia precisando che “tutti gli uomini sono creati eguali” e che “da questa creazione su basi di eguaglianza derivano dei diritti inalienabili, fra i quali la vita, la libertà e la ricerca di felicità”. Solo in seconda battuta, e come conseguenza, giunge la necessità di avere dei governi, “i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Tuttavia, “ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in guisa che gli sembri più idoneo al raggiungimento della propria sicurezza e felicità”.

Prima di rovesciare un governo, però, è necessario che il popolo oppresso tenti ogni possibile mezzo per riformarlo: “La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause transeunti e di poco conto governi da lungo tempo stabiliti; e conformemente a ciò l’esperienza ha dimostrato che gli uomini sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle forme di governo cui sono avvezzi. Ma quando una lunga serie di abusi e usurpazioni, invariabilmente diretti allo stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un duro dispotismo, è loro dovere abbattere un tale governo e procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura”[xiv].

Osserva ancora Snyder che “Noi [Americani] non abbiamo dichiarato guerra all’Inghilterra; abbiamo dichiarato che coi suoi stessi atti il governo inglese sulle nostre terre si era reso illegittimo, e che noi, di conseguenza, ci ritenevamo liberi da ogni obbedienza nei suoi confronti. Noi non abbiamo posto in atto alcuna forma di ripicca o vendetta violenta per riparare i misfatti che erano stati compiuti; abbiamo semplicemente dichiarato che da quel momento ci saremmo governati da soli[xv]. In altre parole, la secessione è giunta non in base a una rivendicazione priva di ragioni, ma in seguito alla decisione razionale dei coloni americani di prendere su di sé il fardello di governarsi.

“Da quando sappiamo – scrive Miglio – per quali ragioni nella teologia dell’assolutismo barocco si è radicato il principio (infondato) in virtù del quale essere “identici” è meglio di gran lunga che essere “diversi”, e in virtù di quali meccanismi logico-politici questo meccanismo è diventato un dogma dello jus publicum europaeum, una naturale reazione ha spinto la cultura occidentale a riconoscere, per la prima volta, fra i grandi diritti naturali indisponibili quello dello “stare con chi si vuole”, vale a dire dell’autodeterminazione e auto-organizzazione di tutte le convivenze e i gruppi comunque pervenuti all’autocoscienza dei rispettivi componenti”[xvi]. In effetti, se si dovesse condensare l’insegnamento del professore in un solo slogan, questo sarebbe perfetto: “il diritto di stare con chi si vuole e con chi ci vuole”.

Tra tutti i rivoluzionari americani, quello che probabilmente ha in misura maggiore influenzato Miglio è Thomas Jefferson. Non solo la radicalità del Presidente americano (che fu anche l’autore della Dichiarazione di indipendenza) ben si accosta a quella di Miglio; egli fu anche l’iniziatore e il padre della tradizione autenticamente federalista che, passando per John Calhoun, arriva intatta fino a Daniel Elazar e allo stesso Miglio. “Ritengo che un po’ di ribellione – scriveva Jefferson – ogni tanto sia una cosa buona, e che sia necessaria al mondo politico quanto le tempeste lo sono a quello fisico. Le ribellioni fallite in genere individuano le usurpazioni dei diritti del popolo, che le hanno cagionate. Osservare questa verità dovrebbe rendere gli onesti governatori repubblicani tanto miti nella punizione delle ribellioni da non scoraggiarle troppo. Esse sono una medicina necessaria per la salute del governo”[xvii]. Sarebbe davvero arduo sostenere l’assenza di un legame stretto tra il pensatore che più di tutti contribuì a fondare la nazione americana e quello a cui si deve buona parte del dibattito sul federalismo in Italia.

La situazione italiana

Tanto Locke quanto i Padri Fondatori americani, come visto, suggeriscono che, prima di passare alle “vie di fatto”, i cittadini oppressi tentino ogni possibile mezzo pacifico per ristabilire la giustizia. Inoltre, la situazione italiana non è strettamente assimilabile alle feroci dittature a cui la mente vola spontaneamente allorché si parla di “diritto di insorgere”. Vi sono insomma seri dubbi sulla legittimità di una rivolta armata e, al di là di tutto, è fuori discussione che essa sia inopportuna.

Quella che si osserva nella penisola, infatti, non è tanto una patente rottura del “contratto sociale” da parte dei governanti: piuttosto, “si tratta di stabilire – spiega Miglio – quale atteggiamento assumere dinnanzi a un comportamento non formalmente ma sostanzialmente illegittimo. E’ escluso, prima di tutto, che un uomo libero debba rassegnarsi a sopportarlo: sarebbe sacrificare la propria dignità a un presunto dovere di sopportazione delle angherie altrui per tutelare l’“ordine sociale” o il “bene supremo della pace”, è una scelta insensata perché foriera di altre e sempre più gravi ingiustizie”[xviii].

Bisogna allora fare un passo indietro, e capire come mai, secondo lo studioso lombardo, all’Italia debba essere attribuito un comportamento “non formalmente ma sostanzialmente illegittimo”. I problemi di un ordinamento democratico in generale, sostiene il professore, “nascono dalla tendenza di chi detiene il potere a usare le istituzioni in modo da farle funzionare soltanto apparentemente: sembra che le regole stabilite vengano rispettate e osservate, ma in realtà la loro efficacia è puramente nominale, e i risultati corrispondono abitualmente all’interesse di chi comanda, e non a quello degli oppositori”[xix]. Inoltre, i detentori del potere tendono ad agire in maniera tale da non perdere il comando: andando anche al di là delle divisioni politiche e partitiche, superandole e annullandole nel nome del supremo scopo di restare alle redini dello Stato.

In questo senso, come nota Herschel I. Grossman, “bisogna distinguere la deposizione della classe dominante dai più comuni cambiamenti politici in cui il ceto al potere si limita a mutare leadership, attraverso un’elezione o un coup d’etat[xx]. In altre parole, non bisogna stupirsi se, di tanto in tanto, cambia il partito titolare del potere o un presidente del consiglio sostituisce quello che lo ha preceduto. Quello che conta, e che va messo sotto accusa, è la persistenza al governo di una unica classe politica.

Le ragioni di tale “incrostamento al potere” affondano le proprie radici nella nascita della Repubblica: “Anche in Italia – è nuovamente Miglio a parlare –  c’erano i due schieramenti; ma una delle parti (quella social-comunista) non faceva mistero della sua intenzione, una volta raggiunto il potere, di non abbandonarlo più, cambiando le regole del gioco, cioè instaurando una irreversibile Costituzione di tipo sovietico (come avevano fatto i comunisti in tutti i paesi dell’Est). Questa situazione rese “zoppa” la nostra democrazia parlamentare fin dal momento in cui nacque: cioè costrinse i moderati – appoggiati dal consenso dell’opinione pubblica – a cercare in ogni modo di conservare sempre la maggioranza… L’impossibilità di un vero ricambio privò il nostro sistema politico dei due fondamentali vantaggi offerti dalla democrazia parlamentare: in primo luogo la mobilità dei detentori del potere,… e in secondo luogo il fatto che l’alternanza mette a carico della finanza pubblica soltanto metà della classe politica e delle sue clientele… La convinzione di essere insostituibili ed intramontabili spinse i detentori del potere moderati… a considerarsi sempre meno vincolati alle regole dello Stato di diritto… L’opposizione social-comunista, man mano che si accresceva l’improbabilità di un cambio vero di maggioranza, si sentiva spinta ed autorizzata a cercare di essere partecipe dei vantaggi del governo. Specialmente perché essa, in alcune regioni, era già in posizione di totale controllo, e poi perché la dimensione della sua rappresentanza parlamentare le consentiva di contrastare e condizionare quotidianamente l’azione dell’esecutivo… Questa formula inedita – per la quale tutti salgono sulla barca del potere –… compattava quasi tutta la classe politica in campo (l’“arco costituzionale”) ammettendola ai vantaggi del potere, e allontanando all’infinito l’eventualità di ricambi alternativi e di connessi rendiconti. Tutti diventavano interessati al mantenimento del sistema, perché tutti ne godevano i benefici”[xxi].

Inoltre, “tra la fine del secolo scorso e il periodo della dittatura del Novecento – prosegue lo studioso lombardo – è però avvenuta una trasformazione essenziale: le classi dirigenti delle regioni d’Italia meno privilegiate, anziché sviluppare le iniziative economico-produttive, si sono dedicate a coltivare il pubblico impiego, occupando tutti i posti rilevanti del sistema politico-amministrativo”[xxii]. Alla colonizzazione per via burocratica del paese da parte delle popolazioni che avevano dovuto subire la conquista sabauda, insomma, si è sovrapposta la metastasi di una classe politica apparentemente inamovibile, creando così una miscela esplosiva.

Il risultato fu che “gran parte dei risparmi [dei cittadini italiani] sono stati bruciati per mantenere alte le paghe del Sud: è un fatto che il debito pubblico è cresciuto per mantenere efficiente il serbatoio dei consensi elettorali al Sud”[xxiii]. In altri termini, il mantenimento dell’intero apparato burocratico-clientelare italiano si regge sulle spalle dei cittadini padani che, con le proprie tasse, sono costretti a mantenerlo e finanziarlo. Ecco dove e perché emerge il diritto di resistere.

Miglio non si ferma neppure di fronte alle facili accuse di “razzismo fiscale” o “egoismo” antimeridionale trovando, in questo, una sponda apparentemente inaspettata nello stesso Thoreau. Questi, citando Confucio, afferma che “Se uno Stato è governato secondo i principi della ragione, povertà e miseria sono oggetto di vergogna; se uno Stato non è governato secondo i principi della ragione, ricchezze e onori sono oggetto di vergogna”[xxiv]. Tale sembra essere proprio la situazione dell’Italia, un paese in cui la più comune critica nei confronti di quanti rivendicano il proprio diritto a essere “padroni a casa propria” è la “tremenda accusa” di voler negare aiuto ai bisognosi.

Eppure, l’intera tradizione politica occidentale – soprattutto, va da sé, nelle sue direttrici liberali – ha riconosciuto agli individui l’incomprimibile diritto a disporre dei propri beni per la realizzazione della propria stessa felicità, e tutto questo con o senza l’approvazione delle maggioranze. “Nessuna autorità su questa terra è illimitata – spiegava Benjamin Constant – né quella del popolo né quella degli uomini che si dicono suoi rappresentanti, né quella dei re (a qualunque titolo essi regnino), né quella della legge, la quale, non essendo altro che l’espressione della volontà del popolo o del principe a seconda della forma di governo, deve essere circoscritta entro gli stessi limiti posti all’autorità di cui essa è emanazione. Tali limiti sono tracciati dalla giustizia e dai diritti individuali. La volontà di tutto un popolo non può rendere giusto ciò che è ingiusto. I rappresentanti di una nazione non hanno il diritto di fare ciò che la nazione stessa non ha il diritto di fare… Se Dio interviene nelle questioni umane, non lo fa che per sanzionare la giustizia; il diritto di conquista non è altro che la forza, la quale non è un diritto, dal momento che si trasferisce a chi l’afferra; l’assenso del popolo non potrebbe mai legittimare ciò che è illegittimo, poiché il popolo non può delegare a nessuno un’autorità di cui non dispone”[xxv].

Traducendo in termini attuali le parole del pensatore francese, si potrebbe affermare che non esiste alcun diritto di rapina, né tanto meno esiste un dovere alla solidarietà. In altre parole ancora, l’obbligo della parte ricca del paese a provvedere ai bisogni, veri o presunti, di quella più arretrata è legittimato solo dalla maggioranza di cui quest’ultima in qualche maniera dispone, ovvero, in ultima analisi, dalla forza. Il processo elettorale, insomma, non è altro che una sublimazione della guerra, in cui i più numerosi (ovvero i più forti) impongono ai meno numerosi di lavorare per loro. Tuttavia, non esiste alcun dovere di aiutare chi ha bisogno – o dice di averlo.

E’ questa consapevolezza che spinge Miglio a scrivere che “soltanto la progressiva trasformazione in senso assolutistico della sovranità (e la crescente arroganza di chi la detiene) hanno condotto a pensare invece l’autorità politica come depositaria della sapienza economica, e arbitra esclusiva della fortuna dei cittadini, ridotti, con le loro risorse e i loro beni, alla totale mercé di chi quell’autorità impersona. Le maggioranze parlamentari di oggi hanno raggiunto, in tema di asservimento fiscale dei cittadini, risultati che i principi assoluti di un tempo non si erano mai sognati. Chi non appartiene alle categorie dei privilegiati e dei protetti, è ormai un suddito taillable et corvéable à merci[xxvi]. In Italia, insomma, è andato completamente perso il nesso che lega la tassazione alla rappresentanza, ed è in frantumi il “contratto sociale” che vincola quest’ultima a non eccedere i limiti della delega ricevuta.

In realtà, tutte queste manifestazioni patologiche altro non sono che l’esplicarsi di un problema fisiologico. L’incapacità dell’Italia di realizzare un regime liberale è dovuta, come già detto, a una Costituzione ambigua. Ma questo, a sua volta, può essere compreso solo con un occhio alla storia: la quale potrà spiegare e smentire la “teologia della Liberazione” (dal fascismo) che si è diffusa grazie soprattutto al ruolo della scuola pubblica. Tra il 1946 e il ’48, infatti, non si è assistito ad alcun cambiamento epocale, né è avvenuta alcuna rivoluzione, anzi, si può affermare senza tema di smentita che, come ha affermato Miglio, “il fascismo populista è il vero anticipatore del populismo antifascista”.

Il professore, intervistato da Marcello Staglieno, sostiene questa tesi osservando che “Basta fare un’analisi comparata degli individui tipici che compongono rispettivamente la classe politica fascista e quella antifascista. Se questa comparazione la facciamo sulla base dell’appartenenza sociale, e prendiamo un fascista del periodo populista e un antifascista del secondo dopoguerra, scopriamo che è identica la loro estrazione, che hanno fatto (se le hanno fatte) le stesse esperienze culturali, con lo stesso livello di educazione, lo stesso modo di reagire, di comportarsi. Quest’analisi rivela insomma che tra fascisti e antifascisti c’è una differenza di bandiera, non di sostanza. C’è una medesima matrice”[xxvii]. Lo stesso concetto era stato espresso, in termini più giocosi, da Ennio Flaiano, allorché questi aveva affermato che “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.

Il male italiano, insomma, è un male antico: che dalla Repubblica risale al fascismo, e da questo all’incapacità di costruire un paese federale e disunito laddove si era preteso di unificare forzosamente le vecchie realtà politiche pre-esistenti. Questa tesi è sostenuta, in termini peraltro estremamente chiari e convincenti, nell’ultimo libro dello studioso lombardo, L’asino di Buridano.

In verità, le regioni padane – di questo il professore non ha mai fatto mistero – sono oggi vittima di un meccanismo che le tiene prigioniere e concede loro solo una parvenza di libertà (“una macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria”, così Giovanni Guareschi definì lo Stato nazionale).

Disobbedienza civile

E’ del tutto evidente, insomma, che l’Italia presenta una situazione particolare. Da un lato, non vi è, perlomeno in un senso stretto, una dittatura – se non quella, dal sapore molto orwelliano, del sistema, della burocrazia, delle procedure. D’altra parte, è pur vero che i cittadini sono sottoposti a un regime politico e fiscale insostenibile, soprattutto in quelle regioni che sono “esportatrici nette” di tasse. Lo scontro in atto nel paese, insomma, è quello tra tax payers e tax consumers. Le due “fazioni”, però, sono piuttosto ben delineate anche da un punto di vista geografico, ed entrambe subiscono con insofferenza l’immane mole di leggi e regolamenti che quotidianamente il Parlamento e i ministeri (e tutti gli altri centri di potere) emanano.

Infine, la rivalità è esasperata dal tentativo ormai secolare di imporre un’uniformità nazionale alla miriade di popoli compressi entro i confini dello Stato italiano. Secondo aspetto del medesimo equivoco è che l’erezione di frontiere artificiose ha trasformato città anticamente votate al commercio (come Oneglia/Porto Maurizio, oggi Imperia), o addirittura vere e proprie capitali (si pensi a Trieste) in luoghi dimenticati da Dio, relegati agli estremi margini del regno (oggi repubblica). Tutti quei territori che dovevano la propria ricchezza alla policentricità della vecchia Europa, insomma, sono stati annientati dalla centralizzazione della nuova Italia.

Come già detto, d’altronde, appare irrealistico e inopportuno il ricorso alla resistenza armata e, quindi, al lockeano “appello al Cielo”. Ecco allora sorgere la possibilità della “disobbedienza civile”. Qualcuno potrà obiettare che, se c’è qualcosa di sbagliato nel nostro sistema istituzionale, esso può e deve essere corretto attraverso il meccanismo democratico. Tuttavia – argomenta Thoreau – “ogni votazione è una specie di gioco d’azzardo, come la dama o il tric-trac, con una lieve sfumatura morale, come giocare con il giusto e l’ingiusto, con le questioni morali; e naturalmente il gioco è accompagnato da scommesse. Il buon nome dei votanti non è in discussione. Può darsi che dia il mio voto in base a ciò che ritengo giusto, ma non è per me di interesse vitale che il giusto prevalga. Sono pronto a lasciarlo alla maggioranza. L’impegno del voto, dunque, non va mai oltre quello della convenienza. Perfino votare per il giusto non è fare niente per esso”[xxviii]. Le schede elettorali, insomma, non garantiscono che il giusto trionferà: e riporre in esse cieca fede equivale a riporre cieca fede nel caso, ovvero ritenere che il giusto e l’ingiusto in qualche modo si equivalgono.

Con questo, Thoreau non intende chiamare i propri (e i nostri) contemporanei a una crociata morale contro gli istituti democratici, né auspica una guerra civile con risvolti catartici. In altre parole, “non è che l’uomo abbia il dovere di dedicarsi all’estirpazione del male, anche del più smisurato; giustamente, può avere altre faccende di cui occuparsi; ma è suo dovere, perlomeno, tenersene fuori, e, se il suo pensiero ne è lontano, non deve aiutare il male di fatto. Se mi dedico ad altri scopi o progetti, per prima cosa devo almeno verificare che non li sto perseguendo standomene seduto sulle spalle di un altro uomo”[xxix].

Per quanto questi “precetti morali” possano apparire condivisi e diffusi, sono poche le persone che li mettono in atto. L’anarchico americano è molto chiaro a questo proposito: talvolta pagare una tassa, o non protestare contro un comportamento ingiusto del governo se non votando contro la maggioranza che lo ha approvato, significa essere corresponsabili del male. Il giudizio è netto e tranchant: chi non si oppone al male, lo aiuta, non importa se attivamente o semplicemente non ostacolandolo.

“Se l’ingiustizia fa parte del necessario attrito della macchina del governo – scrive ancora Thoreau – lasciamo correre, lasciamo correre: forse esso si attenuerà – di sicuro la macchina si logorerà. Se l’ingiustizia ha una molla, una puleggia, una corda, o una manovella esclusivamente per sé, allora si può forse considerare se il rimedio non sia peggiore del male. Ma se è di natura tale da imporvi di essere agente di ingiustizia nei confronti di un altro, allora, perbacco, si infranga la legge. Che la vostra vita faccia da controattrito per fermare la macchina… Quanto all’adottare i sistemi che lo Stato ha predisposto per porre rimedio al male, io di tali sistemi non ne conosco… Un uomo non deve fare tutto, ma qualcosa; e poiché non è in grado di fare tutto, non per questo è necessario che debba fare qualcosa di sbagliato”[xxx]. L’assunto implicito in queste affermazioni è che al di là e al di sopra della legge degli uomini, vi è una Legge più alta, la quale non può essere infranta se non al prezzo di calpestare le prerogative incomprimibili dei propri simili. In altre parole, lo scrittore americano postula e difende l’esistenza di quelli che la moderna società chiama “diritti naturali” e che invece i Founding Fathers amavano indicare col termine “God given rights”.

Non per nulla, “l’autorità del governo… è ancora impura – conclude Thoreau –: per essere pienamente giusta, deve avere l’approvazione e il consenso dei governati. Non può avere diritti sulla mia persona o proprietà, al di fuori di quelli che io le concedo”[xxxi]. Questa affermazione, più di altre, esprime con estrema chiarezza il fondamento della riflessione del pensatore americano. Il governo non può agire al di fuori dei limiti della delega ricevuta dai cittadini, e in ogni caso non può servirsi di tale delega per commettere ingiustizia: compromettendo per ciò stesso la clausola del consenso e perdendo, quanto meno, quello delle vittime delle sue azioni. E’ così che emerge il diritto alla disobbedienza civile – e, come visto, tale è la condizione odierna dell’Italia.

Resta allora da chiarire cosa sia e come possa esplicarsi la disobbedienza civile: che, pur derivando da un precetto universale, non può non essere concepita secondo ragioni e fattori particolari. E’ su questo punto che la riflessione migliana torna a essere centrale. In primo luogo, il professore si sofferma a commentare il termine.

La parola disobbedienza indica un comportamento volto a disattendere un obbligo che invece si sarebbe tenuti a rispettare. “Questo comportamento – scrive lo studioso lombardo – non contesta la procedura con cui l’obbligo è stato stabilito, ma rifiuta il contenuto dell’obbligo stesso, e vuole mostrare a chi comanda la concreta possibilità di perdere il potere: vuole far capire che l’obbedienza passiva non è virtù di uomini liberi”. Disobbedire a un ordine ingiusto, anzi, non è soltanto un atto legittimo, ma addirittura un dovere morale.

D’altra parte, la disobbedienza implica una condotta pacifica e non violenta: rappresenta una sfida e una rivendicazione, dunque, piuttosto che una dichiarazione di guerra. Tale aspetto è ribadito e rafforzato dall’aggettivo “civile”: il quale “colloca il comportamento nella sfera delle prerogative del cittadino”. In altre parole, “si vuole chiarire che qui la disobbedienza è soltanto espressione del diritto, posseduto da ogni individuo, di partecipare alla statuizione degli obblighi giuridici che lo riguardano”[xxxii].

Ora, è chiaro (ed è stato esplicitamente sottolineato altrove) che, da un lato, il diritto di resistenza è un diritto individuale e, dall’altro, esso è proprio di chi non accetta che qualcuno – sia esso il re, il governo o la maggioranza – lo privi dei propri diritti naturali. E’ altrettanto evidente che le maggioranze, prendendo corpo e consolidandosi, tendono a porre in essere politiche volte a garantirsi certi privilegi alle spalle delle minoranze. Queste ultime, d’altronde, esistono, e spesso possono godere di un certo potere: è pur vero che le maggioranze sono, almeno in termini figurati, “più forti”, ma è altrettanto corretto che spesso le minoranze sono più determinate, anche perché sono confortate dalla consapevolezza di essere dalla parte del giusto, laddove i loro avversari hanno assunto atteggiamenti aggressivi.

Secondo Miglio, d’altronde, non è essenziale dare vita a partiti o organizzazioni volte a occuparsi unicamente della gestione della protesta; in ogni caso, “penso – egli scrive – che questo salutare strumento di lotta politica, per essere efficace (al limite: irresistibile) debba radicarsi nelle convinzioni di uno strato abbastanza diffuso della società. In un determinato momento storico, la ribellione pacifica dei cittadini può cambiare il destino di un paese soltanto se essa diventa la bandiera di un gruppo che, oltre ad avere dimensioni estese, possegga al suo interno un minimo di organizzazione e quindi esplichi capacità operativa. Il carattere collettivo di una protesta aggiunge a quest’ultima un “plusvalore” indispensabile”[xxxiii].

In passato, questo dilemma tra la forza e la volontà della maggioranza, da un lato, e i diritti delle minoranze, dall’altro, è generalmente stato risolto a favore dei più numerosi: anche attraverso la deificazione dello Stato e la creazione di idoli quali l’unità nazionale, l’eternità del “contratto sociale” e la volontà generale. A questa rappresentazione “teologica” Miglio contrappone un’idea nuova: quella che “ormai ogni coesistenza politica non possa basarsi più su patti di fedeltà – giurati per la vita e per la morte, e quindi “eterni” – ma laicamente su “contratti” a tempo determinato, “condizionati” e dunque destinati, ad un certo momento, a essere rinegoziati, oppure a sciogliersi e lasciar libere le parti”[xxxiv]. Egli afferma dunque il primato dell’individuo sullo Stato, e su quelle entità ballerine e sempre tese verso la tirannide che sono le maggioranze. (Allo scopo di spiegarne il comportamento, Frédéric Bastiat[xxxv] affermò efficacemente che “lo Stato è quella grande finzione attraverso cui tutti cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri”).

Lo studioso lombardo, d’altra parte, mette anche in evidenza che una simile tensione si presenta con maggiore facilità e frequenza entro quei sistemi istituzionali che non prevedono la possibilità di un riaggiustamento dei rapporti attraverso una soluzione federale. E’ lì che i cittadini, trovandosi non di rado a far parte di una minoranza più o meno organizzata, sono in grado di far valere il proprio diritto alla disobbedienza civile con qualche speranza di successo – eventualità che è ben più remota nel caso di un “individuo contro lo Stato”, per parafrasare il titolo della nota opera di Herbert Spencer.

Come è possibile, però, esercitare concretamente questo diritto? La risposta di Miglio è semplice e letale: “rifiutandosi di rispettare innanzi tutto quelle regole che, nel campo dei diritti civici e nella pubblica amministrazione, umiliano proprio la loro [delle minoranze] “diversità”. Arrivando poi naturalmente fino a mettere in causa il rispetto dei carichi fiscali, come segno di obbedienza verso un potere non sentito più come legittimo”[xxxvi]. La durezza e la chiarezza di queste parole valse al professore l’ostracismo dei media e l’aperta condanna dell’intero mondo politico, compreso il biasimo di alcuni tra i più pavidi di quelli che allora erano i suoi “compagni di strada”. Tuttavia, tale atteggiamento negativo dell’intellighenzia non produsse un rigetto popolare delle tesi migliane, anzi. I cittadini impararono proprio in quei difficili giorni del 1993 ad amare e rispettare il professore: con ciò fornendo ulteriore dimostrazione che il potere dello Stato veniva davvero messo in serio dubbio.

Lo sciopero fiscale

La forma migliore in cui la disobbedienza civile può manifestarsi ai giorni nostri, secondo Miglio, è quella dello “sciopero fiscale”: i cittadini si rifiutano di finanziare, attraverso le proprie tasse, uno Stato non avvertito più come legittimo, anche ammesso che tale condizione si sia mai verificata. Questa pratica gode infatti di tutti i requisiti sopra esposti (in particolare quello della non-violenza) e ha il pregio non solo di puntare l’indice contro un comportamento illecito del governo, ma anche di mettere in discussione i mezzi con cui quest’ultimo persegue i propri scopi. Infine, lo sciopero fiscale può essere uno strumento davvero efficace, in quanto – se riceve ampia adesione – può perfino privare lo Stato della forza economica necessaria a porre in atto qualche forma di repressione.

Inoltre, esso si riallaccia da un lato alla gloriosa tradizione inaugurata dai Padri Fondatori americani, dall’altro a un ricco filone di pensiero, che dal liberalismo classico conduce al libertarismo, riflettendo anche in questo l’evoluzione migliana. Non è esagerato presentare lo sciopero fiscale come uno strumento della vera lotta di classe che, da sempre, agita le acque della storia umana: “I principi del liberalismo classico e la dottrina dei diritti naturali – spiega a tal proposito Guglielmo Piombini – avevano fornito ai ceti produttivi una forte difesa morale di fronte alle sempre più ingiustificabili pretese espropriative delle categorie parassitarie”[xxxvii]. E’ chiaro, dunque, che Miglio riprende l’antico interrogativo della filosofia politica (che cosa distingue l’agire di una banda di criminali da quello del governo?) e lo risolve a sfavore degli apparati pubblici.

Come già aveva fatto Lysander Spooner[xxxviii], lo studioso lombardo riconosce nelle pretese di un governo non legittimato dal consenso le stesse caratteristiche che ci fanno considerare illegittimo il comportamento di un brigante di strada. Il nuovo “contratto sociale” che egli tenta di instaurare (“o la borsa o la vita”) può e deve essere rigettato, proprio rifiutandosi di consegnare il portafoglio (fuori di metafora: di pagare le tasse).

“L’appartenenza consapevole a una qualsiasi convivenza civile e politica – argomenta Miglio – genera abitualmente l’impegno a una contribuzione finanziaria (o a prestazioni in natura) finalizzati a remunerare i servizi offerti dalla convivenza medesima ai suoi membri… E’ quasi inutile rammentare che, sulla base di questa primordiale obbligazione – con la crescita della cosiddetta “civiltà materiale”, e quindi con la moltiplicazione dei “bisogni” – si è stratificata una mole imponente di spese… E l’investitura politica, con il passare del tempo, è diventata soprattutto, e primariamente, mandato a tassare”[xxxix]. Quando però questo “mandato a tassare” eccede i propri già ampiamente oltrepassati limiti, allora il cittadino ha diritto a rifiutare obbedienza, e a opporsi all’applicazione di tributi ingiusti. (Tra i quali eccelle per ingiustizia, così afferma il professore in Disobbedienza civile, quello sulla casa di proprietà).

In altre parole, ognuno dovrebbe essere vincolato a pagare unicamente in funzione di quanto effettivamente fruisce dei beni forniti dallo Stato; e non dovrebbe parimenti essere contemplata la possibilità di sottoporre a balzelli altro che questo. Anzi, nel momento in cui il fisco mette gli occhi sul bene per eccellenza visibile e non occultabile, la voce di Miglio si alza forte e chiara: “affermo che su tali beni il fisco non deve pretendere nulla: perché essi costituiscono, per così dire, una estensione fisica e un complemento necessario della persona che li possiede e li usa. In caso contrario, tanto varrebbe sottoporre a imposta la salute o la bellezza di un cittadino”[xl].

Queste e simili affermazioni gli attirarono immediatamente gli strali dei difensori del vecchio sistema: che culminarono nella già citata denuncia di Martelli. Anche in momenti successivi, però, le proposte di sciopero fiscale trovarono una certa eco da parte dei movimenti più determinati (si pensi alla “fase eroica” della Lega Nord e alla marcia contro il fisco del novembre 1997 – una sorta di riedizione della “marcia dei quarantamila” di Torino[xli] –, o ai tentativi, più o meno riusciti, di organizzazioni come la LIFE).

Specularmente, le reazioni alle reiterate minacce di boicottare l’erario furono dure e non di rado incapaci di comprendere la reale natura dei sommovimenti che stavano agitando le regioni padane. Proprio a questo proposito, Carlo Lottieri scrive che troppo spesso emerge, tra gli intellettuali e gli opinion maker, una sorta di “fedeltà religiosa” che li ancora “alla mitologia statale e ai suoi catechismi. Emerge insomma un’ortodossia statalista che spiega meglio e più di tante altre considerazioni le difficoltà di buona parte del mondo della cultura a dialogare veramente con gli eretici e i miscredenti dell’area pedemontana”[xlii].

Non bisogna, d’altra parte, trascurare la dimensione politica dello sciopero fiscale, né fingere che gli appelli più realistici non abbiano coinciso col momento di massima espansione della Lega (1993) o con la sua aperta presa di posizione a favore della secessione (1996-97). In entrambe le occasioni, Miglio era vicino ai padanisti: nel 1993 come senatore eletto sotto il loro stendardo, nel biennio ’96-97 come loro punto di riferimento e “vecchio saggio”. D’altra parte, le menti più aperte si erano ben rese conto del potenziale esplosivo del fenomeno leghista, al punto che un liberale di vecchia data come Antonio Martino aveva definito quella espressa dalle leghe “una rivolta fiscale in senso lato”[xliii].

E’ ancora Lottieri a chiarire il senso di tutto: “Vi è nell’indipendentismo padano – egli ha scritto – una rivendicazione giuridico-economica che non può essere ignorata né sottovalutata. Risulta evidente che le masse elettorali prevalentemente operaie e piccolo-borghesi che si orientano verso la Lega e che hanno premiato la sua accelerazione secessionista… [sono interessate] all’ipotesi di porre fine al trasferimento delle risorse dal Nord al Sud e alla prospettiva di riservare ai residenti i posti di lavoro del settore pubblico”[xliv]. Anche Miglio si era chiaramente reso conto del potenziale racchiuso dal Carroccio e, al di là dell’altalenante rapporto con Umberto Bossi, non si è mai allontanato di fatto dal “popolo leghista”.

Lo studioso lombardo ha sempre precisato di frequentare la Lega con l’occhio dell’osservatore: che verifica sul campo la bontà dei propri studi – una sorta di applicazione del metodo scientifico alla scienza della politica. Anche all’atto di scrivere il saggio sulla Disobbedienza civile, probabilmente le cose sono andate così. Sebbene il professore non abbia, a conti fatti, saputo prevedere il futuro – in realtà la società padana, o il partito che essa aveva delegato a rappresentare il proprio malessere, non è mai riuscita a organizzare una vera protesta fiscale – i frutti della riflessione migliana devono ancora essere raccolti, e i semi sono caduti su terreni fertili quanto insospettabili.

In un suo divertissement del 1993, il professore così descrive un’immaginaria Italia in preda alla rivolta (anche fiscale) dei suoi ceti produttivi: “Lo Stato ha la drammatica urgenza di alimentare con il prelievo fiscale le casse dell’erario, poiché deve pagare – ed è già in ritardo – gli stipendi del pubblico impiego (Carabinieri e Polizia compresi) e far fronte agli altri impegni indilazionabili di bilancio. Tuttavia, davanti al dilagare della protesta, né il potere politico né le altre forze dell’ordine paiono voler fronteggiare i rischi che la situazione impone… Nessun altro Corpo dello Stato si impegna a fermare, come noi [finanzieri] caparbiamente cerchiamo di fare, l’attività delle industrie che rifiutano di soggiacere al prelievo forzoso del 30 percento sui loro conti. Le Fiamme Gialle sono sole. Né Poliziotti né Carabinieri sono al loro fianco quando, ad esempio, devono fronteggiare imprenditori e lavoratori che, facendo fronte comune, bloccano l’ingresso nelle aziende. O bruciano registri e preziose documentazioni fiscali”[xlv]. Il tono è evidentemente scherzoso, ma l’argomento trattato è serio.

Nonostante il carattere “apocalittico” tipico delle opere di fantapolitica, Italia 1996 non manca di evidenziare come la crisi dello Stato italiano sia dovuta in larga misura al rifiuto opposto dai cittadini al prelievo fiscale. Non è assente neppure la realistica constatazione che, in tempi di difficoltà, possa essere la Guardia di Finanza (militarizzata e dotata dagli assurdi poteri che la legge le riconosce[xlvi]) il più solido paletto dello Stato centralista. Fu lo stesso Miglio, anzi, a coniare il termine “Brigate gialle”.

Intervistato alcuni anni dopo, Miglio definì la disobbedienza civile “la strada che imbocca un popolo civile”[xlvii]. Perché questo non sia ancora accaduto nelle nostre regioni, è argomento di un dibattito ancora aperto, e non è detto che ciò che non è successo nel passato non possa non verificarsi nel futuro.

Resistenza e secessione

Tutte le riflessioni finora svolte hanno un grande peso nella determinazione dei rapporti che devono intercorrere tra il cittadino e le istituzioni politiche. Affermare che quello ha dei diritti, significa anche riconoscere che queste hanno dei limiti. D’altra parte, non ha alcun senso né pare ragionevole scagliarsi contro gli antichi sovrani “per diritto divino” e poi riconoscere ai moderni parlamenti poteri ancora superiori, solo perché legittimati dal voto. Tale convinzione, infatti, non intacca minimamente la legittimità delle prerogative della corona, ma si limita a mutarne la fonte: in passato Dio, oggi quel dio volubile e capriccioso che si chiama “maggioranza”.

Difendere il diritto del singolo a ribellarsi contro un governo tirannico, d’altra parte, conduce analogamente ad affermare il diritto delle comunità politiche a non essere oppresse da un lontano governo centrale. Nel momento in cui tale riflessione si innesta sul corpus delle teorie neofederali, si perviene a una nuova immagine del diritto di secessione: visto come estrema forma di resistenza da parte di una comunità locale contro l’invadenza dello Stato.

In realtà, questa tesi era già stata argomentata, in maniera spesso convincente, da Allen Buchanan[xlviii]: il filosofo statunitense, però, vi giungeva muovendo non già dal riconoscimento dei diritti individuali inalienabili, ma a partire da non meglio definiti “diritti di gruppo”. D’altra parte, Daniel J. Elazar osserva che, nei sistemi politici federali, “La non centralizzazione assicura che, a prescindere dal modo in cui certi poteri possano essere condivisi dai governi generale e costitutivi, il diritto di partecipare al loro esercizio non può essere negato se non per mutuo consenso”[xlix]. Nel momento in cui il consenso svanisce, emerge il diritto di secessione. Attenzione, però: sebbene le parole dello studioso israeliano siano riferite alle organizzazioni politiche federali, abbiamo visto che il diritto a costituire una comunità politica indipendente appartiene alla sfera dei diritti incomprimibili dei cittadini e delle comunità, intese come libere associazioni di liberi individui.

I Quaderni Padani hanno già ampiamente approfondito la questione: proprio sulla scia della riflessione migliana. “Il diritto di secedere – scriveva Alessandro Storti – si fonda quindi sul presupposto che vada tutelata la diversità, non solo fra uomo e uomo, ma anche fra diverse collettività… Il diritto di secessione, insieme al diritto di resistenza, costituisce la facoltà prepolitica essenziale su cui si fondano tutti i sistemi istituzionali. Ciò significa che tali diritti, anche se non vengono menzionati nelle Costituzioni, stanno alla base di ogni processo costituente, poiché da essi partono e ad essi ritornano tutte le aggregazioni politiche”[l]. Alessandro Vitale, antico allievo del professore, osserva di rimando: “Il diritto di “andarsene” è una forma di resistenza che deve essere adottata da una singola parte del territorio di uno Stato, quando questa parte, accortasi della tirannide dei detentori del potere politico, non trova negli altri membri dello Stato la disponibilità a prendere misure comuni”[li]. Queste parole, sia detto per inciso, vengono formulate nell’ambito di una panoramica sul pensiero di Johannes Althusius[lii]: un pensatore su cui Miglio aveva speso molte ore di studio e riflessione.

E’ evidente, nelle parole di Storti e Vitale, il retaggio migliano. Nella prospettiva dello studioso lombardo di un federalismo “pattizio”, il diritto di secessione non può d’altra parte venire meno: né essere sottoposto a vincoli di alcun genere. Rispondendo alle critiche di quanti si fanno scudo del vecchio armamentario nazionalista per opporsi alla secessione della Padania, egli affermò che “Quello che si comincia a capire, e voglio vedere come si fa a sostenerlo, è che esiste l’idea di un diritto di tutti quelli che stanno intorno ad un territorio a trattenerlo all’interno dello Stato”[liii]. Da un lato, dunque, vi è chi difende il diritto degli individui (e delle comunità da essi formate) a decidere sul proprio futuro, dall’altro chi si oppone a questa possibilità, in nome della Patria, della chiesa, della nazione, della lingua o di un preteso diritto/dovere alla “solidarietà”.

In termini ancora più chiari e netti, Miglio ha scritto che “Il diritto di secessione è il diritto al distacco, che viene fatto valere come suprema garanzia della propria indipendenza… Io sostengo che una Costituzione in cui il diritto di secessione sia implicitamente o esplicitamente escluso, non sarà mai una Costituzione federale, ma una Costituzione unitaria: perché la porta da cui uscire deve rimanere sempre aperta”[liv]. Il punto cruciale, allora (e qui si vede quanto Miglio fosse realmente libertario), è che la secessione – in questo andando oltre la resistenza – non necessita, per essere esercitata, di uno stato di oggettiva oppressione; è sufficiente che una comunità ritenga di essere oppressa o, più semplicemente, che desideri abbandonare le vecchie istituzioni.

I moderni filosofi anarco-capitalisti sarebbero pronti a sottoscrivere ciascuna e tutte queste parole. Murray N. Rothbard, nell’articolo Nations by Consent, afferma che “Non tutti i confini di Stato sono giusti. Uno scopo dei libertari dovrebbe essere trasformare gli Stati nazionali esistenti in entità nazionali i cui confini potrebbero esser chiamati giusti, nello stesso senso che i confini della proprietà privata sono giusti: cioè, decomporre gli Stati nazionali coercitivi esistenti in autentiche nazioni, o nazioni per consenso”[lv]. Non diversa è l’analisi sviluppata da Hans-Hermann Hoppe: “La secessione incoraggia le diversità etniche, linguistiche, religiose e culturali, che nel corso di secoli di centralizzazione sono state soppresse”[lvi], con ciò ponendo in essere un’oppressione di dimensioni gigantesche.

In un libro successivo, Federalismo e secessione (che contiene la trascrizione di un lungo dialogo con Augusto Barbera), Miglio sembra fare eco a queste considerazioni. “Lo Stato sociale – egli afferma – è quindi un prodotto dello Stato nazionale centralizzato di grandi dimensioni, ed è un sistema, alla lunga, fallimentare”[lvii]. Come i pensatori americani, lo studioso lombardo sembra dunque ritenere che federalismo e secessione possano in qualche maniera costituire un antidoto al dilagare di soluzioni stataliste; anche da questo deriva la sua predilezione per i sistemi decentralizzati.

Se il federalismo appare un’ottima via di scampo per quei paesi che possono godere di una certa armonia sociale, la secessione è strumento indispensabile per le comunità che, con o senza una ragione condivisibile, anelano all’indipendenza. Sono soprattutto i gruppi umani oppressi, come è ovvio, ad avere diritto (e interesse) a rendersi indipendenti: perché alle valide motivazioni addotte dai teorici della secessione si accoda buona parte del pensiero politico liberale e occidentale.

In ogni caso, e a prescindere da tutto, nella visione di Miglio federalismo e secessione non sono semplicemente mezzi comunque legittimi per veder tutelata la libertà individuale. Il primo è, tra tutte le forme che i rapporti politici possono assumere, quella più simile a un contratto privato. Il secondo, tra tutti gli atti che un popolo oppresso può commettere, è quello più decisivo e, per così dire, “immacolato”. In entrambi i casi, si tratta di provvedimenti non solo efficienti, ma anche buoni in sé.

Conclusione

Dopo essere stato sbeffeggiato in vita, Gianfranco Miglio è stato poco meno che dimenticato in morte. Rari ricordi gli sono stati dedicati dalla stampa, e tra essi, con pochissime eccezioni[lviii], la larga maggioranza ha insistito sul suo ruolo “politico” – come “ideologo” della Lega Nord, prima, e senatore del Polo, poi. Quasi nessuno, insomma, ha riconosciuto la grandezza dello studioso lombardo: né ha fatto emergere la vasta portata delle sue riflessioni, soprattutto sui temi del federalismo, della secessione e del diritto di resistenza. Non saranno molti tra i cittadini di questo paese, dunque, quelli che penseranno a lui come al vero teorico dello sciopero fiscale.

Vi è tuttavia chi, nonostante la sua chiarezza espositiva, insiste nel negare che egli abbia mai assunto posizioni in qualche maniera anti-stataliste o favorevoli alla secessione. Se così fosse, vorrebbe dire che tutto un filone interpretativo – quello più prolifico e attivo – dell’opera del professore poggia le proprie fondamenta sulla sabbia. Cosa più importante, costoro parrebbero ignorare l’intera produzione migliana degli anni ’90. Queste parole, però, sono vere solo in un senso molto limitato: lo studioso lombardo, infatti, ha sempre affermato di preferire una federazione a uno Stato unitario. Tuttavia, con ciò egli non voleva né sminuire né negare il diritto di secessione delle comunità politiche volontarie.

Sollecitato da Alberto Mingardi, Miglio ha chiarito questo punto: “Il patto di unione che caratterizza una comunità politica è variabile nel tempo, e l’idea di secessione produce un altro Stato. Il lato negativo del principio di secessione è che la secessione conduce una comunità politica ad affermare la sua sovranità, e questo è in contrasto con il principio federale. Immaginare una formazione strutturale politica come avente il diritto di secedere è significare la nascita di nuovi Stati nazionali, cioè riproporre gli errori che hanno condotto allo Stato moderno e alla sua auto-distruzione. E’ però incontestabile che quando una comunità politica riconosce la propria identità… una scelta di fondo può essere fatta. Una comunità politica può decidere di stare per conto proprio, questo è scritto nella storia delle istituzioni politiche”[lix]. Inoltre, il diritto di secessione (come, d’altra parte, l’antistatalismo) è implicito nella dottrina giusnaturalistica, cui Miglio aveva aderito.

In realtà, il politologo lombardo va addirittura oltre il secessionismo su base etnica o nazionalitaria. Secondo lui, è sbagliato riconoscere il diritto di secessione solo alle componenti di una federazione. Il “diritto di andarsene” appartiene a qualunque gruppo umano che desideri dotarsi di proprie istituzioni, in ossequio alla formulazione – dovuta allo stesso Miglio – del diritto a stare “con chi si vuole e con chi ci vuole”.

Non è errato neppure vedere in talune perplessità del professore rispetto all’opportunità della secessione (egli non ebbe mai, invece, perplessità alcuna sulla legittimità del diritto a secedere) l’eco dell’antico monito di Denis De Rougemont: “L’autonomia è una nozione relativa molto precisa, quando si parla per esempio dell’autonomia di volo di un apparecchio, o dell’autonomia di decisione di un gradino amministrativo. Preferiamo, nel mondo regionale, questa libertà modesta, ma assolutamente reale, alle ubriacature dell’indipendenza assoluta, ma illusoria di cui si vantano gli Stati-nazione”[lx]. In altri termini, è sempre preferibile mantenere istituzioni federali piuttosto che crearne nuove centralizzate; ma questo è un problema di opportunità piuttosto che di legittimità o diritto. Inoltre, si tratta di una formulazione non troppo lontana da quelle – già citate – di Locke e della Dichiarazione di indipendenza americana sul diritto di resistere.

Proprio queste osservazioni concedono l’occasione di riportare l’attenzione sul problema della resistenza. Nel momento in cui sia verificata e consolidata una situazione di oppressione, dovuta all’intero ordinamento giuridico e non a una sua legge particolare, il cittadino e, per estensione, la comunità politica cui egli appartiene ha il diritto di ribellarsi. Il modo più pacato di farlo è rivolgere petizioni e proteste all’autorità. Se questa non dà segno di voler cambiare le cose, allora il passo successivo – pienamente giustificato e legittimo in sé – è la disobbedienza civile: che, nel mondo moderno, può assumere convenientemente l’aspetto dello sciopero fiscale.

Qualora però l’oppressione sia sistematicamente diretta a una comunità, questa dispone del diritto incomprimibile di “andarsene”, ovvero di ritirare la delega concessa – esplicitamente o implicitamente – al governo. Ogni diritto appartiene agli individui, e nessuno Stato del mondo può godere di poteri maggiori di quelli che ottiene in delega.

Tuttavia, tale diritto può addirittura assumere l’aspetto di un dovere (morale): esso, infatti, costituisce condizione necessaria a potersi definire “uomini liberi”. E’ ancora una volta il caso di ricordare le parole della Dichiarazione di indipendenza americana: “Ma quando una lunga serie di abusi e usurpazioni, invariabilmente diretti allo stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un duro dispotismo, è loro dovere abbattere un tale governo e procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura”.

Può anche interessare il fatto che alcuni teologi o predicatori settecenteschi assimilavano al suicidio il rifiuto di opporre resistenza all’aggressione. Tale inazione era duramente condannata, in quanto avrebbe tradito il disprezzo nei confronti del supremo dono divino – la vita. Naturalmente, un ragionamento analogo può essere svolto a proposito delle comunità (volontarie), pur tenendo ben presente che nessun gruppo gode di “vita”, se non nel senso che godono di vita tutti i suoi membri. Al limite, si può affermare che una comunità è tanto più viva, quanto più sono liberi i suoi membri.

E’ assolutamente corretto, insomma, vedere in Gianfranco Miglio l’erede e il moderno mentore dell’antico precetto cristiano secondo cui “disobbedire ai tiranni è obbedienza a Dio”. Tutto ciò rimanda a una più ampia visione dell’uomo e del mondo: in cui ogni individuo è libero, sì, di scegliere, ma è anche pienamente responsabile delle proprie scelte. L’autore di Disobbedienza civile, anzi, andava oltre: non solo, talvolta, l’uomo può compiere scientemente il male; egli può addirittura desiderarle compierlo, e provare piacere nel farlo.

“Non posso sopportare, non posso capire – disse una volta Miglio – i cattolici “sociali”. Hanno l’aria di insegnare a Dio come avrebbe dovuto fare l’uomo. La malvagità dell’uomo non la ammettono: per loro è colpa della società. Io invece accetto l’uomo così com’è, nel suo misto di bene e di male. Ecco la grande differenza, ecco perché dicono che io sono reazionario: il mio cattolicesimo è amaro e realistico, come si respirava alla Cattolica quando ero studente. Padre Gemelli, che era medico, aveva l’abitudine di considerare il comportamento umano in modo concreto. Il cattolicesimo edulcorato è venuto dopo, col dossettismo, con Lazzati, con un’idea astratta dell’uomo. Le anime belle, l’“animabellismo” di tanti cattolici discende da lì: ce l’hanno con l’America, con il mercato, con l’intero Occidente, che pure è stato creato dal Cristianesimo”[lxi]. Lo studioso lombardo, che era un realista, non poteva certo accettare il dogma della “responsabilità sociale”, ovvero dell’irresponsabilità individuale!

Essere schiavo non è degno di un individuo, né di un popolo, libero. La responsabilità, d’altra parte, è implicita nella libertà, e il prezzo di quest’ultima – per dirla con Jefferson – è “l’eterna vigilanza”. Solo lo schiavo che desideri essere libero può realizzare il proprio sogno.

“I popoli liberi e meglio ordinati – scrive Miglio concludendo il proprio saggio sulla Disobbedienza civile – sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni del loro governo, ma che tornano poi ogni volta a rifondare, con più solida persuasione, l’ordinamento in cui vivono”[lxii].

 



[i]  Gianfranco Miglio ed Henry David Thoreau, Disobbedienza civile (Milano: Mondadori, 1993). Tutte le citazioni riferite a questo testo saranno precedute, per semplicità, dalla dizione “DC”.

[ii]  H. D. Thoreau, La disobbedienza civile e Vita senza principi (Bussolengo, VR: Acquarelli anarchici, 1995).

[iii]  Rudolf Rocker, Pionieri della libertà (Milano: Edizioni Antistato, 1982).

[iv]  DC, pag. 57.

[v]  Giuseppe Motta, “L’ultimo Miglio è libertario”, su Enclave n. 8, maggio 2000, pag. 39.

[vi]  Carlo Stagnaro, “Miglio: lo Stato moderno è superato”, su La Padania del 4 luglio 2000, pag. 10.

[vii]  DC, pag. 14.

[viii]  Jeffrey R. Snyder, Nation of Cowards. Essays on the Ethics of Gun Control (Lonedell, MO: Accurate Press, 2001), pag. 156.

[ix]  DC, pag. 14.

[x]  DC, pagg. 17-18.

[xi]  Alberto Mingardi, “Io guardo all’Olanda. Intervista a Gianfranco Miglio”, su Quaderni Padani n. 25-26 (settembre-dicembre) 1999, pagg. 10-11.

[xii]  John Locke, Il secondo trattato sul governo (Milano: Rizzoli, 1998), pag. 347.

[xiii]  Ibidem, pag. 369.

[xiv]  Dichiarazione dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America, adunati in Congresso Generale, Filadelfia, 4 luglio 1776.

[xv]  J. R. Snyder, Nation…, cit., pagg. 162-163.

[xvi]  DC, pagg. 19-20.

[xvii]  Luigi Marco Bassani, Contro lo Stato nazionale. Federalismo e democrazia in Thomas Jefferson (Bologna: Edizioni Il Fenicottero, 1995), pag. 142.

[xviii]  DC, pag. 15.

[xix]  DC, pag. 13.

[xx]  Herschel I. Grossman, “Lo Stato è al servizio… di chi?”, su Kéiron n. 9, “Tecnocrazia”.

[xxi]  G. Miglio, Come cambiare. Le mie riforme (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1992), pagg. 11-15.

[xxii]  G. Miglio, L’asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l’ultima occasione di cambiare il loro destino (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1999), pag. 69.

[xxiii]  G. Miglio, in Giorgio Ferrari, Gianfranco Miglio. Storia di un giacobino nordista (Milano: Casa Editrice Liber Internazionale, 1993), pag. 134.

[xxiv]  DC, pag. 61.

[xxv]  Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (Macerata: Liberilibri, 2001), pag. 42.

[xxvi]  DC, pag. 27.

[xxvii]  G. Miglio, Una costituzione…, cit., pagg. 23-24.

[xxviii]  DC, pagg. 47-48.

[xxix]  DC, pag. 50.

[xxx]  DC, pagg. 53-54.

[xxxi]  DC, pag. 78.

[xxxii]  DC, pagg. 16-17.

[xxxiii]  DC, pag. 32.

[xxxiv]  DC, pag. 20.

[xxxv]  Si veda Frédéric Bastiat e Gustave De Molinari, Contro lo statalismo (Macerata: Liberilibri, 1994).

[xxxvi]  DC, pagg. 21-22.

[xxxvii]  Guglielmo Piombini, La proprietà è sacra (Bologna: Edizioni Il Fenicottero, 2001), pag. 33.

[xxxviii]  Lysander Spooner, La Costituzione senza autorità (Genova: Il Melangolo, 1997).

[xxxix]  DC, pagg. 22-23.

[xl]  DC, pag. 30.

[xli]  Si vedano “La marcia sul fisco”, “Marciando marciando” e “Dall’arte di arrangiarsi a quella di ribellarsi”, in Sergio Ricossa, Da liberale a libertario. Cronache di una conversione (Treviglio, BG: Leonardo Facco Editore, 1999), pagg. 50-55.

[xlii]  Carlo Lottieri, “Se i Veneti ignorano Stato e politica… Il Nord pedemontano e lo sguardo antropologico”, su Federalismo & Libertà, n. 3 (maggio-giugno) 1998, pagg. 221-222.

[xliii]  Antonio Martino, “Tassiamoci da soli”, su Il Sabato, 28 luglio 1990, pag. 28.

[xliv]  C. Lottieri, “Interpretazioni della Padania. Gli studi sulla Lega tra geopolitica e sociologia”, su Federalismo & Società n. 3 (autunno) 1997, pag. 66.

[xlv]  G. Miglio, Italia 1996. Così è andata a finire (Milano: Mondadori, 1993), pagg. 130-131.

[xlvi]  La legge del 7 gennaio 1929 afferma che le Fiamme Gialle hanno la facoltà di accedere “in qualsiasi ora” in “ogni azienda industriale o commerciale”, “al fine di effettuare accertamenti e verifiche”.

[xlvii]  In C. Stagnaro, “Processo all’imposizione fiscale. Tassati di tutto il mondo, unitevi!”, su Federalismo & Libertà, n. 3 (maggio-giugno) 1998, pag. 147.

[xlviii]  Allen Buchanan, Secessione. Quando e perché un paese ha diritto di dividersi (Milano: Mondadori, 1994).

[xlix]  Daniel J. Elazar, Idee e forme del federalismo (Milano: Mondadori, 1998), pag. 136.

[l]  Alessandro Storti, “La secessione come facoltà pre-politica e diritto naturale”, su Quaderni Padani n. 3 (gennaio-febbraio) 1996, pag. 7.

[li]  Alessandro Vitale, “Quando una comunità storica ha il diritto di andarsene”, su Quaderni Padani n. 4 (marzo-aprile) 1996, pag. 8.

[lii] Si veda Johannes Althusius, Politica (Napoli: Alfredo Guida Editore, 1980).

[liii]  A. Storti, “Intervista a Gianfranco Miglio”, su Quaderni Padani n. 7 (settembre-ottobre) 1996, pag. 50.

[liv]  G. Miglio e Augusto Barbera, Federalismo e secessione. Un dialogo (Milano: Mondadori, 1997), pagg. 176-177.

[lv]  Ernest Renan e Murray Newton Rothbard, Nazione, cos’è (Treviglio, BG: Leonardo Facco Editore, 1996), pag. 48.

[lvi]  Hans-Hermann Hoppe, Abbasso la democrazia. L’etica libertaria e la crisi dello Stato (Treviglio, BG: Leonardo Facco Editore, 2000), pag. 48.

[lvii]  G. Miglio e A. Barbera, Federalismo…, cit., pag. 39.

[lviii]  Voglio citare Massimo Caccari, “Miglio, la lezione di un eretico”, su la Repubblica, 12 agosto 2001; A. Mingardi, “Il tredicenne alla corte di Merlino”, su Libero, 12 agosto 2001; Lorenzo Ornaghi, “Quelle lezioni di democrazia”, su Presenza, n. 7 (agosto-settembre) 2001, pag. 18; M. Staglieno, “E’ stato il principe dei costituzionalisti”, su il Nuovo, 11 agosto 2001; C. Stagnaro, “Gianfranco Miglio: un gigante del pensiero politico”, su Ideazione.com n. 36 (7 settembre 2001); A. Vitale, “L’attualità di un gigante, scomodo per la politica”, su élites n. 3/2001 (“Omaggio a Miglio”), pagg. 4-10.

[lix]  A. Mingardi, “Io guardo…”, cit., pag. 12.

[lx]  Citato in Francesca Pozzoli (a cura di), Federalismo e autonomia. Dal Settecento ai giorni nostri (Milano: Rusconi, 1997), pag. 271.

[lxi]  In G. Ferrari, Gianfranco Miglio…, cit., pag. 143.

[lxii]  DC, pagg. 32-33.

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