L'EREDITÀ DI GIANFRANCO MIGLIO
 

Cercare di delineare in poche righe l'eredità di Gianfranco Miglio, descrivere tutto quello che ha lasciato è pressoché impossibile. I campi di studio che ha esplorato, gli orizzonti che ha raggiunto, le generazioni di studenti che ha guidato nel cammino di studio e di scoperta, l'esempio luminoso (lasciato soprattutto a coloro che per tanti anni hanno lavorato al suo fianco) di estremo rigore e serietà, di dedizione alla propria professione di studioso, intesa primariamente come dovere verso gli altri, l'esempio di coerenza e di assoluta onestà, di immensa dignità di uomo libero che ha impersonato, hanno dello sconfinato. Ogni singolo periodo della sua esperienza umana, scientifica, di azione per tentare di incidere sulla scena politica e istituzionale, richiederebbe interi volumi di analisi e di approfondimento.
È inoltre difficile inquadrare una personalità tanto poliedrica, sia nel campo della sua esistenza personale (carattere, interessi, esplorazioni, rapporti umani e professionali), che in quello scientifico: essa infatti, come è stato più volte rilevato, sfugge a tutte le più facili classificazioni. A chi lo ha conosciuto da vicino e per anni ha lavorato al suo fianco, cercando di cogliere l'unitarietà della sua figura e del suo lavoro, è accaduto spesso di vedere questi ultimi sdoppiarsi, triplicarsi, moltiplicarsi in prismi diversi e numerosi, in mille facce differenti di un unico, luminoso e prezioso cristallo, ogni faccia del quale era diversa dalle altre, una più interessante dell'altra, tanto ricca è stata la sua vita e di straordinaria vastità tutto quello che ha studiato, ha rappresentato e ha compiuto.
Gianfranco Miglio è stato uno dei maggiori scienziati della politica e costituzionalisti che questo Paese abbia avuto. Il suo lungo percorso scientifico però rimane ancora inesplorato, una strada non ancora battuta, disseminata di ricerche, di scritti, lezioni universitarie, interventi, folgoranti messe a punto e precisazioni, scritte di suo pugno o risultanti da innumerevoli articoli e interviste che spesso sono più importanti, per la loro portata e per il rovesciamento di abitudini mentali o di interi castelli concettuali e teorici senza fondamenta ma dati per scontati, di quanto non siano alcune parti delle sue più antiche ricerche. Un prodotto, tutto questo, della sua passione per la ricerca della verità, per il dubbio metodico e per l'inquietudine intellettuale quali fonti e stimoli permanenti di continua scoperta.
L'opera di Gianfranco Miglio è una miniera inesauribile di conoscenza sulla politica e sulle sue invarianti, sullo Stato moderno, sulla sua ideologia e sulla sua realtà; è una fonte copiosa di intuizioni illuminanti in campi molto eterogenei, spesso non sviluppate fino alle loro estreme conseguenze e lasciate in sospeso in vista di uno studio approfondito e documentato successivo, ma che aprono la vista su sterminati orizzonti ancora da raggiungere. Nonostante la relativa esiguità numerica dei volumi che portano il suo nome (poiché a Miglio, nutrito da una ferrea onestà intellettuale, non piaceva scrivere fino a che non fosse riuscito a raccogliere una quantità sterminata di dati storico-sperimentali difficilmente confutabili per supportare le sue ipotesi di ricerca), la ricchezza sterminata del suo inesausto lavoro nel campo della ricerca sulla politica e sui suoi meccanismi, affiora in tutta la sua limpidezza primariamente da una lettura fra le righe, dagli spazi bianchi, da tutte quelle cose lasciate intuire e intravedere a chi ne sviluppi le conseguenze logiche e il lavoro di conferma empirica, che immancabilmente porta anche il più scettico a dover constatare la verità e l'effettiva manifestazione nella realtà nei fatti di quanto si ritrova descritto o previsto nella sua frammentaria ma illuminante opera. Non è un caso se le sue ricerche più brevi e più concise, i suoi interventi a convegni scientifici di periodo diversi si rivelino ancora oggi i più folgoranti e innovativi, quelli che riescono a penetrare più a fondo nel nucleo di un problema scientifico. Come se lo sguardo dello studioso fosse stato dotato di una capacità quasi inspiegabile, se non con i lunghi anni di studio nei campi più disparati e diversi e un'intelligenza acutissima capace di operare difficili collegamenti e scoperte, di vedere dietro i paraventi, spesso compatti e impenetrabili, dei quali la realtà della politica si serve per dissimularsi.
L'opera scientifica di Miglio non può comunque essere descritta con una scelta di temi perché, data la sua vastità, una selezione risulta sempre arbitraria, in quanto tralascia inevitabilmente argomenti cruciali, tutti reciprocamente interrelati. Si può però cercare di individuarne l'intima coerenza interna, esplorando alcuni filoni di ricerca da lui affrontati.
Gianfranco Miglio è un gigante del realismo politico a livello internazionale ed è, come è stato da tempo rilevato, "l'ultimo classico" della politologia italiana ed europea. Si è già discusso di questa caratteristica, qualche volta basandosi su luoghi comuni. Tuttavia la "classicità" risiede effettivamente in molti aspetti della sua esperienza: soprattutto nel non fermarsi alla superficie dei fenomeni, andando a indagare le strutture permanenti, le "invarianti", le "regolarità", ciò che si cela dietro alle maschere con le quali si gioca la farsa (che si trasforma spesso in tragedia) della politica. La sua classicità sta inoltre nell'assenza assoluta di preclusioni per qualsiasi fonte nuova di conoscenza, purché dotata di potenziale esplicativo capace di estendere la teoria fino al massimo raggiungibile nella spiegazione. Essa sta infine nell'uso del metodo storico (esteso a tutte le epoche della storia umana) integrato con quello concettuale e tipologico, non dissimile da quello di Carl Menger e della Scuola Austriaca dell'economia nell'individuazione, come meta della ricerca, non di "tipi ideali" weberiani, ma di "tipi reali": un metodo generalmente ritenuto molto differente rispetto a quello più matematizzante e formale di conio americano (anche se la scuola politologica americana, contrariamente alle apparenze, è tutt'altro che omogenea). Una classicità comunque fatta di studio concettuale della politica (Begriffspolitik), innervato di astrazione e di metodo analitico, volti a dar vita a creazioni teoriche sistematiche. Però la sua è anche stata una "classicità", nutritasi non a caso di vastissime e illuminanti frequentazioni con il pensiero politico dell'età classica, fortemente proiettata in un ambito proprio, autonomo, originale, non comparabile.
In Miglio inoltre sarà sempre centrale il tentativo di tenere fuori dalla porta del laboratorio del politologo i valori che inquinano (facendo apparire la politica per quello che non è nella realtà dei fatti) lo studio freddo, disincantato e oggettivo della "realtà effettuale", scandagliata dall'alto della sua sterminata conoscenza storica.
Egli ha tentato poi, riuscendovi fruttuosamente in molti campi, di superare la barriera fra scienze storico-politico-sociali e scienze della natura, ricercando le "regolarità effettuali" più profonde del comportamento politico e studiando le potenziali applicative delle scienze naturali all'analisi del "politico", verificando l'impatto di quelle scienze sulle ideologie e sulle istituzioni.
Le radici teorico-scientifiche della sua visione vanno da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes a Mosca e Pareto, da Max Weber a Carl Schmitt, da Otto Hintze a Otto Brunner, da Henry Sumner Maine a Maurice Hauriou, agli studiosi germanici dell'amministrazione e del diritto internazionale (Triepel), ai migliori giuristi francesi (Duguit) e, parallelamente, ai grandi federalisti, da Althusius a Gierke, da Jefferson a Calhoun. Gli autori dai quali ha tratto linfa vitale per i suoi studi, "inglobandoli" nel suo modello di studio della politica, sono moltissimi, prevalentemente tedeschi e anglosassoni, mai seguiti però acriticamente (come a volte è stato del tutto erroneamente sostenuto), ma dei quali ha cercato, criticandoli spesso anche profondamente e duramente nelle loro inesattezze e insufficienze, di svilupparne la lezione fondamentale, portandoli alle estreme conseguenze storiche e logiche, fin dal primo momento del contatto intellettuale con il loro insegnamento.
Gli argomenti innovativi che ha affrontato sono estremamente numerosi: dall'ideologia e il ruolo che essa gioca in politica come "bandiera" di una classe politica, alla teoria del "ciclo politico", a partire da un esame approfondito delle dottrine e istituzioni politiche del mondo classico, ai rapporti fra politica e diritto, politica ed economia, politica e psicologia, allo studio della formazione e della sopravvivenza della gestione pratica del potere (amministrazione), in un ripudio completo del formalismo giuridico e delle più correnti ideologie, iniziando da un periodo nel quale Miglio ha operato, nel quale la storicità dello Stato moderno, abbellito dal mito del "progresso" e dall'idea dello "Stato come stupenda creazione del diritto", era data per tutt'altro che scontata. Infatti la sua opera è stata distruttiva particolarmente per i paradigmi giuridico-formali ancora dominanti negli Anni Cinquanta (anche nel diritto internazionale dogmatico), caduti sotto la scure delle sue serrate demolizioni, demistificazioni, smascheramenti. Inoltre, fra i campi esplorati da Miglio vi sono i processi di formazione dell'autorità e del potere, il legame fra politica ed economia da una parte e le relazioni internazionali dall'altro (anticipando per una via del tutto autonoma tendenze di ricerca che si affermano solo oggi nel tentativo di risolvere complessi problemi), il campo vastissimo dello studio del tempo e dello spazio in politica, il ruolo dei simboli in politica, il carattere irrazionale della politica stessa e così via. Gli studi su singoli aspetti del "politico" però poggiano tutti sulla sua analisi della realtà profonda della politica, nella quale è centrale lo studio dell'"obbligazione politica" come realtà contrapposta e irriducibile all'obbligazione "contratto-scambio".
Il cuore della sua teoria del 'politico', ruotante attorno al tentativo di mettere in luce le mille facce del "cristallo dell'obbligazione politica", implicava lo studio di fenomeni estremamente reali e correlati fra loro, quali la "rendita politica" (contrapposta a quella di mercato) nei suoi aspetti teorici e tipologici, la realtà della rappresentanza politica (al di là delle mitologie "democratico-rappresentative" dominanti nella Scienza Politica) e quella dei partiti politici (macchine per guadagnare le "rendite politiche" e per gestirle), realtà descritta compiutamente a partire dalla sue memorabili Lezioni, in un momento nel quale nella politologia più in voga si disegnavano solo modelli formali e inevitabilmente superficiali (polarismo, bipolarismo, e così via), applicati per di più, riuscendo a spiegare ben poco di rilevante, allo sgangherato caso italiano. Così, ancora, nelle sue esplorazioni va ricordato lo studio dell'amministrazione, guidata dall'abitudine a vedere l'esercizio del potere "dal basso", per svelare la vera storia dello Stato moderno e del suo futuro andando al fondo degli ordinamenti, delle istituzioni e della logica interna del loro funzionamento. Un campo che lo porterà a svelare la realtà storica dell'Italia come "miracolo tecnico" della pura ragion di Stato, al di là dell'ideologia risorgimentale diffusa nella maggior parte degli storici.
Al nome di Miglio viene spesso affiancato quello di Carl Schmitt, scienziato del diritto e della politica di altezza siderale e fra i più fraintesi, che egli ha fatto conoscere in Italia, gettando letteralmente una bomba culturale fra i piedi dell'ortodossia accademica e culturale, all'inizio degli anni Settanta. Tuttavia il realismo di Miglio, è giunta l'ora di chiarire questo punto, ha sviluppato la lezione schmittiana spingendosi molto al di là degli orizzonti di declino dello Stato moderno e dello Jus Publicum Europaeum intravisti dallo studioso tedesco, così come della impostazione schmittiana dello studio del politico, fin quasi a ribaltarla. Questo appare già negli studi migliani sulla "politica oltre lo Stato", sulla trasformazione della guerra, sul rapporto fra dimensione "interna" e "internazionale", sul rapporto (reversibile) fra guerra esterna e guerra civile, sulla correlazione fra l'assetto interno delle aggregazioni politiche (fra sfera dell'obbligazione politica e area del contratto) e la natura dei sistemi internazionali, soggetti ad evoluzione ciclica in base al loro grado di politicizzazione e negli studi sulla relatività assoluta (e sulla convertibilità illimitata) dei concetti di "interno" ed "esterno".
Le intuizioni di Carl Schmitt andavano per Miglio infatti fin dall'inizio sviluppate, utilizzate come "testa di ponte" per l'esplorazione di sconfinati continenti di conoscenza, ossia occorreva esplorare quell'immenso territorio che stava oltre le frontiere raggiunte dallo studioso tedesco, in contrasto con l'ortodossia accademica. Ben oltre Schmitt (e in contrapposizione profonda ad esso) però Miglio si spingerà ancor più nell'ultimo decennio della sua attività, che è anche il periodo meno conosciuto della sua vita (o volutamente ignorato) dagli studiosi, in concomitanza con il crollo del blocco politico-militare orientale e dell'Impero sovietico: collasso che anche secondo Miglio segna una data storica di importanza colossale, oltre la quale secondo lui si sono invertiti processi politici durati almeno cinque secoli. Proprio da qui egli partirà per riprendere in modo totalmente differente e radicalmente innovativo i suoi antichi studi sul Federalismo, pur non tradendo affatto, ma anzi portandola alle estreme conseguenze, la sua impostazione realista.
Già prima della caduta del sistema bipolare in tutto il mondo il pendolo della storia aveva incominciato a muoversi, come Miglio stesso aveva previsto, verso una prevalenza della dimensione del contratto-scambio e del "privato". Il Federalismo appare a Miglio presente nelle cose come una conseguenza obbligata del declino dell' "obbligazione politica", del tramonto dello Stato Moderno, dello Jus Publicum Europaeum, con tutto il suo ormai obsoleto apparato concettuale e come conseguenza della crisi del modello parlamentare. Il problema della decisione, tema eminentemente schmittiano, connaturato alla politica, imbocca per forza di cose secondo Miglio canali differenti rispetto a quelli rigidi e stabiliti una volta per tutte dallo Stato moderno e dalla tradizione costituzionale a partire dal XVII secolo (ed esplosa nel XIX), legata ad una visione semplicistica, basata su riduzioni estremamente semplificate della politica (la sovranità, i confini, la fiscalità ecc.) e dottrinariamente coerente con quella stessa struttura, che sta uscendo dal processo storico e della quale Miglio approfondisce sempre più la vera natura e le ragioni della sua crisi. Per lo studioso, sempre bollato come "decisionista", la decisione non ha mai avuto la portata trascendente che hanno sembrato attribuirgli Carl Schmitt o Hermann Heller. Essa per Miglio svolge solo un ruolo gestionale e amministrativo. Quello decisionale infatti "È solo un momento del processo politico, necessario ma inserito nel complesso tessuto di relazioni e di esperienze, a cui serve con la sua portata meramente funzionale".
L'irriducibilità della dimensione politica, per Miglio, come ha osservato Carlo Lottieri, non implica affatto una glorificazione dello Stato, della coercizione, della violenza monopolisticamente organizzata. Il contratto, per sua natura un rapporto volontario continuamente rinegoziato, imponendosi nelle cose diventa esso stesso "sovrano" e il rapporto federale assume una costante mutabilità, a seconda dei bisogni dei soggetti che compongono la federazione.
Miglio inoltre, e non a caso, recupera gli antichi studi sul giusnaturalismo, nei quali era stato un'autorità indiscussa, riconosciuta anche in America, il suo antico Maestro Alessandro Passerin d'Entrèves e, oltre a sostenere di voler introdurre quello che è sempre mancato in Italia, cioè una cultura della disobbedienza civile, Miglio collega al Federalismo la legittimità del diritto di secessione come suo correlato logico irrinunciabile, posto a logica garanzia della "federalità" di un sistema. Fra realismo e logica, lo studio dell'"obbligazione politica" negli ultimi dieci anni di vita di Gianfranco Miglio prosegue con una continuità sorprendente, giungendo a esiti di una coerenza adamantina, smantellando anche sue insufficienti (a suo stesso dire) analisi precedenti ed aprendo vie che negli anni Ottanta sarebbero parse azzardate e contraddittorie.
La visione dell'autorità e del potere, del loro manifestarsi sul piano istituzionale, nel realismo di Miglio fuoriesce invece semplicemente da quella codificata dalle categorie dello Stato moderno e recupera una dimensione pluralistica simile a quella precedente al consolidamento della sovranità assoluta, gerarchico-accentrata, di marca statuale moderna. Di qui il suo sempre più vivo interesse per il ritorno di attualità di strutture politiche flessibili, come quelle dell'Hansa tedesca, delle Province Unite, della Confederazione Elvetica prima del suo compromesso deturpante e contraddittorio con le categorie statuali moderne, delle costituzioni delle città libere contrapposte ai Principati prima e allo Stato assoluto in seguito. Tutte strutture "a basso tasso di politicità" che hanno prodotto livelli di civiltà e di crescita economica straordinari. È l'"altra metà del cielo" della storia europea, come egli la definisce, a tornare di attualità con le sue straordinarie ed esemplari strutture di marca althusiana, ricche e complesse, progenitrici del neofederalismo contemporaneo. La teoria di Miglio non vede più la garanzia della pluralità in un ambito statuale moderno, ma fuoriesce da essa, sulla falsariga di Schmitt ma spingendosi infinitamente più lontano di quanto non avesse fatto lo scienziato tedesco dalla visione e dall'armamentario dello Stato Moderno (dirà infatti e non a caso nel 1992: "Schmitt non condividerebbe quello che sostengo e cerco di dimostrare in questi anni"), intravedendo convivenze extrastatuali in fieri, ormai sempre più lontane dall'impossibile "quadratura del cerchio" (come la definiva Otto von Gierke) fra Stato e Federalismo, tentata nella sintesi incoerente dello "Stato federale", un autentico ossimoro come lo "Stato liberale". Non solo: il nuovo Federalismo (che egli studia tornando alle ragioni del Federalismo delle origini) diventa qualcosa di diverso dalle strutture basate sul patto politico. Del resto secondo Miglio è la stessa massa crescente di negoziati, confronti, pattuizioni, contrattazioni, che imperversano oggi a tutti i livelli, a superare nelle cose il vecchio modello dello Stato sovrano e del diritto come atto d'imperio, trasformando quest'ultimo in frutto di una decisione interpersonale e diffusa, generatrice di altre decisioni "a cascata". Di qui anche la critica alle illusioni di autori di scuola liberaldemocratica di restaurare, di fronte alla crisi dello Stato moderno, impianti ideologicamente fondati, quale quello dello "Stato di diritto". Lo stesso sistema istituzionale a venire gli appare sempre più, in una lucida visione a distanza di decenni, come permeato di contratti liberamente negoziati, dai quali inizia a generarsi anche la legge, non più prodotto di un atto d'imperio condotto dal sovrano. Questo complesso di istituzioni gli sembra sempre più come qualcosa che sarà tutt'altro che disordinato o altamente imprevedibile: la decisione interpersonale si muove sempre più autonomamente, basando su se stessa anche la regola pacta sunt servanda, senza più bisogno dell'autorità politica che si arroghi il monopolio della sua tutela. È la decisione interpersonale a fondare questa regola e altre decisioni diventano il prodotto di quest'ultima, dando vita ad un sistema giuridico molto più coordinato, automatico e prevedibile di quello "offerto" (imposto) malamente e con "costi collaterali" altissimi, dal vecchio Stato sovrano ormai in decadenza irreversibile.
Non sorprende allora la sua crescente attenzione per le relazioni di mercato (catallassi), che avevano costituito un punto di riferimento costante, per contrasto, nello studio degli opposti relazioni e comportamenti attinenti al regno dell'obbligazione politica, all'interno dei quali introdurrà negli anni Sessanta nella politologia contemporanea il concetto e la tipologia delle "rendite politiche". Del resto il Federalismo per Miglio si nutre fin dalle sue gloriose origini di rapporti contrattuali analogamente a quanto avviene nel mercato e nelle associazioni. Così come non sorprende la netta distinzione (poi usata anche nella polemica politica) fra "cercatori di paghe e rendite politiche" e veri operatori economici o fra modi differenti di acquisizione della ricchezza (politici ed economici): distinzione che converge quasi completamente con la disincantata e impressionante teoria sullo Stato di Franz Oppenheimer e con le teorie libertarie di Lisander Spooner, Albert Jay Nock e John Caldwell Calhoun.
Federalismo, declino dell'obbligazione politica e dello Stato Moderno, la più grande "finzione" mai inventata, riaffermarsi del contratto e dinamismo del mercato, genesi della legge dal contratto e non da valori mistici ormai decrepiti, sono in Miglio così strettamente collegati. Gli inconvenienti più gravi prodotti dallo Stato Moderno (l'arbitrio, la tassazione esasperata, la violenza, le dittature, il totalitarismo, gli spostamenti forzati e l'ingegneria delle popolazioni, i democidi ai danni di minoranze e di interi popoli inermi) potranno essere superati secondo Miglio da una dispersione concorrenziale del potere e da un affermarsi delle relazioni di mercato, dalla concorrenza e dalla competizione, presupposti irrinunciabili dei sistemi autenticamente federali, unici freni, al di là del fallimento lampante del Costituzionalismo moderno, della crescita indiscriminata e gerarchico-piramidale del potere, della violenza e dell'arbitrio statale e coerenti con la tutela di diritti naturali e indisponibili da parte di ogni potere politico.
Nel suo costante realismo Miglio dissolve così anche, molto più radicalmente di quanto non avesse fatto Schmitt, la contraddizione in termini dello "Stato liberale" (altro ossimoro e paradosso irrisolto), impossibile compromesso fra principi dello Stato Moderno e garanzie dei diritti naturali, in continua deriva verso il centralismo e la concentrazione del potere, la libertà di contratto, l'intolleranza verso chi attenti alla sua unità-omogeneità interna, la politica interventista, assistenziale, protezionista, pianificatrice, la burocratizzazione, della quale annuncia il declino, pur se gli apparati pubblici metteranno in atto un'autodifesa disperata e cercheranno di rivitalizzare esangui modelli socialdemocratici. Non deve sorprendere pertanto la sua affermazione del 1992: "Io che sono sempre stato un decisionista, a 74 anni sono diventato un libertario e spingo sull'acceleratore del Federalismo. È l'unica garanzia contro l'autoritarismo, che oggi è un rischio vero, perché le vie della politica non sono infinite".
In ogni caso, quanto Miglio abbia lasciato alla teoria del neofederalismo, quali illuminanti percorsi di studio abbia aperto non solo per questo Paese, che annega nel bruciante paradosso, ripetutamente rilevato da Miglio stesso, di "Essere "naturalmente" federale per le sue stesse caratteristiche, ma anche, al contempo, totalmente privo di cultura federale", lo si constata agevolmente se si confrontano i suoi scritti più recenti con la teoria federale più aggiornata e valida a livello mondiale. Anche e soprattutto in questo campo il suo sguardo nell'ultimo decennio si è spinto molto lontano, come già hanno incominciato a riconoscere all'estero valenti studiosi.
Nella teoria neofederale egli prosegue con coerenza profonda la sua antica ricerca sulla doppia e contrapposta obbligazione (l'obbligazione politica e quella "contratto-scambio"), portandola alle estreme conseguenze logiche, basate sempre sul terreno storico-sperimentale.
Che la morte di Gianfranco Miglio non abbia ancora avviato una disamina approfondita sulla sua opera, pacata e in sede accademica, non meraviglia. I grandi politologi, quelli veri, come lo stesso Miglio faceva notare spesso, sono sempre "postumi". A volte occorrono venti o trent'anni perché ci si accorga della portata della loro opera, della produttività di una loro ipotesi o della validità di una loro scoperta, che potevano inizialmente sembrare poca cosa. Inoltre Gianfranco Miglio è stato una persona scomoda proprio come lo sono tutti i veri scienziati della politica, che non si preoccupano di compiacere chi detiene il potere, né di aderire alle convinzioni più diffuse o di abbellirle con orpelli ideologici o con "omaggi labiali" ad altisonanti princìpi, per essere accettati o osannati dall'opinione pubblica o dal resto della comunità accademica ufficiale, attaccata spesso, soprattutto in un Paese come questo, privo di concorrenza intellettuale e quindi di confronto reale, alle stantie mode del momento. Come ha scritto inoltre Angelo Panebianco, parlando di Miglio nel 1988, i grandi realisti sono sempre personaggi scomodi, irritanti, perché ricordano continuamente quello che dà fastidio sentirsi dire e per questo hanno anche come destino inevitabile quello di essere circondati da un alone di diffidenza. Va poi aggiunto a questo che quasi sempre, come ha sempre detto lo stesso Miglio, si imputa loro la responsabilità dell'esistenza di meccanismi e leggi che essi hanno solo scoperto e che esistono nelle cose: per questo sono generalmente anche grandi solitari.
Gianfranco Miglio è stato il paradigma, la quintessenza di una persona libera, al servizio di nessuno e di un'indipendenza assoluta. Circondato dall'affetto dell'amatissima famiglia, di tanta gente semplice e di qualche allievo, antico o recente, guardato sempre da lui con profondo rispetto e interesse, è stato un uomo solitario e isolato per il semplice fatto che alle altezze siderali e alle soglie del futuro, alle quali il suo pensiero continuo, ininterrotto, limpido e profondo si muoveva, nessuno era in grado di seguirlo in modo integrale, fedele e compiuto. Basterebbero a dimostrarlo le tante incomprensioni, le definizioni affrettate e superficiali anche di alcuni ex allievi. Una solitudine e un'indipendenza talmente profonde da produrre per converso anche il grave inconveniente, nonostante i tantissimi semi gettati e poi fioriti nelle discipline più diverse, di non lasciare una propria scuola strutturata, operante e visibile, nonchè discepoli in grado di proseguire compiutamente lo studio dei problemi che per lui erano i più rilevanti. Un uomo solitario in questo Paese, poi, anche perché molto più proiettato verso la cultura, i dibattiti scientifici e le scoperte del mondo germanico e anglosassone, nei quali esiste una comunità scientifica degna di questo nome, che dibatte e fa progredire la conoscenza e non la lascia avvizzire nei soliloqui di chiuse scuole corporate, nepotistiche, parassitarie, improduttive e incapaci di comunicare fra loro, o nella vacuità-irrilevanza dei temi di studio prescelti, i quali, proprio per l'assenza di confronto e concorrenza, sono i più facili ma anche i più infecondi. Un uomo solitario Miglio lo è stato ancor più nel tentativo di incidere seriamente sull'assetto politico-costituzionale (la ricerca sulle riforme istituzionali è stata solo il coronamento delle ricerche sulla crisi della democrazia rappresentativa e dello Stato) di un Paese gravemente malato, dominato dal conformismo intellettuale, dal metodico compromesso per vantaggi personali e dall'attenzione dei singoli al guicciardiniano particulare.
E tuttavia, come ha scritto nel 1988 Nicola Matteucci, la presenza di Miglio nella cultura italiana è ben riscontrabile per vie nascoste, sotterranee, discrete. Questo vale ancor più per i suoi studi sui meccanismi delle Costituzioni, per le sue taglienti e spietate osservazioni sulla crisi dei sistemi parlamentari "integrali", per l'incidenza anche su idee diffuse, che ha avuto la sua riflessione negli ultimi dieci anni della sua vita. Di questi ultimi e del suo ininterrotto lavoro, della logica evoluzione del suo studio scientifico quasi nessuno conosce particolari precisi, tranne i pochissimi che hanno avuto la fortuna di seguirlo nei suoi studi e di esserne guidati con discrezione e affetto. Anni dei quali nessuno sa cose dettagliate, inoltre, da una parte perché, ad un livello molto basso, l'assordante quanto rozzo tamburo massmediatico ha trasformato lo studioso in una figura irreale, spesso caricaturale, paradossale e totalmente falsa. Dall'altra perchè, anche laddove si tenti un'analisi non convenzionale della sua opera, continuano ad essere operati collegamenti impropri e arbitrari, tratte conclusioni non rispondenti alla realtà, desunte da conoscenze superficiali e non aggiornate.
Anche in ambito accademico, a causa dell'indifferenza, delle semplificazioni e dell'ostracismo che Miglio ha subìto, divenuto ormai scomodo soprattutto per la sua scelta di riportare il Federalismo, da sempre combattuto in Italia con tutti i mezzi e mai studiato nelle Accademie, al centro della riflessione sulla politica e sul declino dello Stato Moderno, nonché di una possibile azione di riforma, si è perso il senso dell'evoluzione recente del suo percorso più che decennale e di una ricerca ininterrotta e coerente. L'attenzione rivoltagli solo fino alla fine degli anni Ottanta infatti porta alla visione distorta di uno studioso "dogmatico", fermo sulle sue posizioni acquisite e sui risultati dei suoi studi o addirittura legato a convinzioni e a ricerche da lui condotte, ma ormai invecchiate. Tutte definizioni paradossali, per non dire surreali per uno scienziato che nell'ultimo decennio della sua vita e fino a ottantadue anni, ha continuato a sostenere la necessità di rivedere o addirittura di buttare a mare alcune sue ricerche fra le più famose, come quella sull'"impersonalità del comando", rivelatasi al diradarsi di molte delle nebbie ideologiche nelle quali si protegge e si spersonalizza lo Stato Moderno, pura ideologia, o di rigettare gran parte delle sue Lezioni di Politica Pura, basate su anni di corsi universitari preparati con cura e precisione impressionanti e con documentazione teorico-empirica tratta e sviluppata solo da prime edizioni e originali di lavori scientifici di tutte le epoche. Quelle Lezioni, innovate in molte parti nel corso degli anni, erano tutte volte a mettere in luce una teoria organica e articolata del 'politico' attraverso il cristallo dalle mille facce dell'obbligazione politica (teoria della classe politica, teoria e tipologia della rendita politica, teoria generale del ciclo politico, ecc.) e l'irriducibilità-inconciliabilità di quest'ultima con l'opposta (su tutti i piani) "obbligazione-contratto".
Miglio ha sostenuto di recente però che quelle Lezioni avrebbero dovuto oggi (dopo la fine del periodo di estrema politicizzazione dello scontro internazionale bipolare) essere svolte in maniera molto diversa e con l'aggiunta di capitoli decisivi, volti allo svelamento ulteriore degli "Arcana Imperii", come ad esempio quelli formidabili e illuminanti, già nel loro primo informe abbozzo disseminato in molti interventi, sulla teoria del parassitismo politico, del declino dello Stato Moderno e della sovranità, delle contraddizioni dei regimi parlamentari, del rapporto fra democrazie e oligarchie, dell'evoluzione-declino dello Stato e del neofederalismo.
La realtà vera è che Miglio, da autentico scienziato, non si è mai innamorato delle sue creazioni scientifiche e delle sue scoperte parziali, che ha sempre considerato solo tappe provvisorie, intermedie, di un duro lavoro di scoperta, solo gradini per raggiungere la conoscenza, che però devono essere rifatti dallo stesso costruttore quando sono riusciti male o quando il ricercatore ha impiegato incautamente un materiale troppo friabile. Egli non ha mai avuto paura di rovesciare come un guanto buona parte dell'apparato concettuale sul quale ha basato le sue teorie.
Negli ultimi dieci anni inoltre non ha mai abbandonato lo studio e l'approfondimento, anche se il tentativo, estremamente complesso già in partenza, di incidere sul cambiamento politico-costituzionale italiano, ha bruciato molto tempo dedicabile alla ricerca. Attestano questa continuità comunque le sue continue sterminate acquisizioni di volumi, le edizioni originali della più disparata provenienza mondiale, acquistati per saziare la sua inesauribile sete di conoscenza e i vastissimi interessi d'indagine. Fino agli ultimi anni egli ha continuato a formulare ipotesi folgoranti sulla natura del neofederalismo, sulla degenerazione dei sistemi federali esistenti e sulle sue cause, sulla politica oltre lo Stato, sulla realtà del sistema elettivo-rappresentativo, sulla trasformazione della politica internazionale e sulle sue ricadute sulle dinamiche politiche in atto, sulle origini europee e althusiane del Federalismo americano, sull'influenza anche per l'Occidente delle trasformazioni internazionali intervenute nell'Europa Orientale e così via. Ipotesi di vasta portata, che sono rimaste a costellare un lavoro immenso, purtroppo in gran parte rimasto incompiuto. Nell'evoluzione teorica del pensiero di Gianfranco Miglio, nonostante le discontinuità dovute al fisiologico processo scientifico di accrescimento della conoscenza e alla correzione o all'abbandono di ipotesi rivelatesi insufficienti o sbagliate, non c'è però alcuna rottura ma solo, va ribadito con forza, coerente continuità.
Sul piano dell'eredità che ha lasciato con la sua esperienza politica diretta, sono i fatti a parlare da soli. Il coraggio dimostrato nelle sue scomode e anticonformiste prese di posizione, la sua lotta solitaria per una radicale riforma costituzionale di un Paese degenerato in tirannide partitocratrica e in assolutismo parlamentare centralizzato, hanno lasciato l'esempio splendido di uno studioso generoso, restìo a chiudersi nella sua comoda torre d'avorio e pronto a opporsi, anche solitariamente, senza cercare vantaggi personali (è rimasta famosa la sua affermazione: "La professione dell'uomo politico è indegna di un uomo libero") e per il solo bene delle generazioni a venire, a un sistema degenerato, divenuto un peso per tutti, tranne che per classi politiche di affaristi e di fruitori di rendite politiche, estorte con la minaccia della violenza e per i loro beneficiati.
Tutto questo permane come esempio straordinario, nonostante il sostanziale fallimento della rivoluzione alla quale ha cercato di dare un decisivo contributo e nonostante gli esigui risultati raggiunti, dovuti a molte cause. In primo luogo le ragioni degli scarsi risultati pratici raggiunti in politica vanno fatte risalire alla strutturale incompatibilità fra politica attiva e studioso della politica (da lui stesso costantemente sottolineata); poi ai continui tranelli, agli imbrogli, ai raggiri, ai tentativi di neutralizzazione ed emarginazione di uno studioso tanto scomodo; quindi alla difficoltà di muoversi su terreni scivolosi e mutevoli, creati ad hoc ed estranei all'unico suo interesse centrale, quello della riforma istituzionale e, ancora, vanno imputate alla perversa capacità di un sistema corrotto di autoproteggersi e di autoperpetuarsi anche utilizzando gli strumenti più biechi e sleali.
Nell'ambito della sua straordinaria eredità va poi considerato l'esempio lasciato dalla sua capacità divulgativa, dalla limpida chiarezza delle sue dichiarazioni e dei suoi scritti, così privi della necessità di nascondersi dietro le parole e volti a far comprendere a tutti, anche a coloro che non hanno potuto condurre studi sofisticati, questioni molto complicate, illuminate dalla sua ricerca. Una chiarezza che ha permesso subito e non a caso, anche a coloro contro i quali puntava il suo dito accusatorio, di capire quali pericoli la sua opera, così solidamente fondata, potesse rappresentare per loro stessi e per i loro consolidati vantaggi.
Se si deve tentare un bilancio generale provvisorio dell'intera opera di Gianfranco Miglio, si può certamente affermare che essa è stata caratterizzata da una modernità troppo accentuata per il Paese e per il tempo nel quale si è trovato a formulare le sue ipotesi e a condurre le sue ricerche e i suoi studi: un Paese che, come è accaduto molte volte, non è nemmeno stato in grado di comprendere chi abbia perduto, come dimostrano le scarne, paradossali e in qualche caso vergognose righe di scarno comunicato giornalistico, pubblicate all'indomani della sua scomparsa e che Miglio avrebbe commentato con l'ironia e l'autoironia che derivavano dal suo distacco stratosferico da tutte le meschinità della vita politica quotidiana.
Gianfranco Miglio, sospinto dalla potenza della sua sovraccarica energia conoscitiva, volta alla continua scoperta e a suggerire continuamente nuovi percorsi lungo ignoti territori da esplorare, si è spinto troppo lontano per essere compreso, ben oltre la nostra contemporaneità, dietro la svolta del tempo. Insieme al suo maestro Alessandro Passerin d'Èntreves entrambi amavano non a caso ironicamente "rimproverarsi" di essere abituati a "pensare per millenni" (altro indizio di classicità).
In Miglio infatti era sempre prevalente la curiosità insaziabile di sapere che cosa sarebbe accaduto fra cinquant'anni, non l'indomani. La sua estrema sensibilità per i grandi cicli storici, per intere epoche, poteva portarlo alla profonda commozione, fino alle lacrime (come mi accadde di constatare personalmente) di fronte ai grandi avvenimenti storici, alle trasformazioni che egli stesso era riuscito in gran parte a prevedere e che facevano riaffiorare fenomeni, denominazioni (di partiti, di Paesi, di città, ecc.) che sembravano sepolti dai tempi della sua infanzia: come accadde nel periodo di svolta epocale rappresentata dal collasso del sistema sovietico. Così come libri affiorati all'improvviso dalla polvere del tempo, portatori di conoscenza e di profonde intuizioni o di autentiche, dimenticate scoperte, potevano allo stesso modo intenerirlo fino alla commozione.
Perché al di là di un'immagine pubblica di durezza e di impietosità (dovuta alla sua estrema e inflessibile coerenza, sia nell'enunciazione delle dure regole della politica da lui scoperte, che nella sua temporanea attività politica, insofferente verso tutti gli approfittatori e i conservatori dello status quo) Gianfranco Miglio era dotato di un'umanità sconfinata e di quelle semplicità e dolcezza che si trovano spesso solo a livelli molto elevati e non comuni di cultura.
Miglio è stato un interprete fedele della bellezza della conoscenza pura che raggiunge sempre nuovi orizzonti, che non si ferma mai, che devia dalle strade battute da tutti per cercarne di nuove, per aprire vie innovative sulle pareti a strapiombo di dura roccia della scienza, con un lavoro faticoso e inesausto di esplorazione e di ricerca, indifferente alle critiche, agli isolamenti e alle ripicche che gli innovatori radicali si trovano immancabilmente a dover subire. La luce dell'intelligenza è stata la caratteristica dominante della sua vita: quella luce che risalta dalla sua limpida e chiara scrittura a penna che ci ha lasciato e che era soltanto il riverberarsi della viva luminosità che ha caratterizzato il suo pensiero, la parola, il gesto semplice e deciso. Gianfranco Miglio è stato una meteora di luce sull'oceano, ricoperto di nebbie fittissime (e per questo così difficile da studiare) della realtà della politica. Con il suo sconfinato talento creativo ed esplorativo, affinatosi dagli anni Quaranta fino alla fine del XX secolo e affacciatosi nel Terzo Millennio, esplorando senza soluzione di continuità e con grande coerenza teorica tutte le dimensioni del "politico", è riuscito ad aprire strade di studio e di ricerca che, se non domani, dopodomani verranno inevitabilmente seguite, proprio grazie a quella stessa luce che su di esse la sua sconfinata cultura e la sua limpida intelligenza hanno proiettato.

Alessandro Vitale
(ricercatore presso l'Istituto di Studi Politici Internazionali, Milano)

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