Nuvol€ n€r€ all’orizzont€?

Le ragioni di chi non crede nell'euro, di Paolo Pamini

Ma si rischia un fallimento, intervista al ministro Martino

I tecnocrati dell'euro, intervista a Giancarlo Galli, giornalista

Euro, la moneta che non c'è, di Ida Magli, opinionista

Controindicazioni dell'euro, di Antonio Martino, ministro della difesa

Euro, la moneta di cui nessuno si fida più, un'altra intervista ad Antonio Martino

 

Le ragioni di chi non crede nell’€uro e nella società organizzata.

[nel caso il carattere non funzionasse si tratta, anche nel titolo, dello stemma dell’EURO]

di Paolo Pamini – ppamini@lionsexchange.ch

Lo abbiamo visto tutti alla televisione: qualche settimana fa a Francoforte hanno presentato ufficialmente le future banconote europee. Gran momento di giubilo e di gloria per quella che dovrebbe essere una riforma monetaria dalle mille promesse e un gran pericolo: il totale fallimento. Non tutti, in effetti, sembrano eccitarsi troppo all’idea di un deus ex machina che voglia risolvere dei problemi valutari che non esistevano affatto, creando molto scompiglio con una moneta ai più ancora estranea. Duisenberg affermava nel discorso ufficiale che le banconote sono pronte, piene di ponti e finestre a simboleggiare la coesione (diremmo quasi “nazionale”…) sul continente europeo. Resta una sola cosa da fare: far capire – queste le parole – agli europei la bontà della nuova moneta. Come dire che la campagna di indottrinamento non abbia ancora raggiunto i suoi obiettivi…

Su cosa si basa l’€uro-scetticismo? Fondamentalmente su di un ragionamento molto semplice: che non si tratti di una misura economicamente necessaria. Tutt’al più lo è politicamente. E si sa che quando la politica (l’ambito della coercizione e dell’imposizione) si mette a dire come debba funzionare l’economia (l’ambito del libero incontro tra soggetti autonomi) la frittata sta per esser fatta. Chi le prime conseguenze le vive sulla propria pelle, i mercati finanziari cioè, al contrario di politici e giornalisti parlano un linguaggio molto chiaro: quello dei prezzi. In un anno e mezzo di vita la nuova moneta (ricordiamo che già oggi non esistono più le lire, i franchi francesi, i marchi intese come valute autonome) si è svalutata rispetto al dollaro di circa il 30%. Non è quello che normalmente si ritiene proprio di una moneta forte. Il problema maggiore non sta tanto nell’idea di una nuova moneta, di per sé un fatto difficile da giudicare, quanto nell’impossibilità di uscire dalla strada imboccata.

Se appena si parlasse con chi è nel campo (non intendiamo i signori di Francoforte..), scopriremmo che l’esigenza di questa moneta è molto minore di quanto si creda. La teoria austriaca dell’economia ci aiuta a capire cosa c’è che non va in tutta l’idea.

Cos’è la moneta?

La moneta non è altro che un normalissimo bene che ha la particolarità di esser generalmente accettato negli scambi. Ancora oggi quando commerciamo barattiamo una merce contro un’altra, il denaro, che utilizzeremo per comprare altri beni reali in un secondo tempo. Se capiamo che la moneta è un bene, capiamo nel contempo che come tutti i prodotti offerti su di un libero mercato essa cerca di soddisfare le esigenze dei consumatori. Non è in questo senso un caso che nella storia dell’umanità il bene “moneta” abbia assunto forme sempre nuove, a braccetto con l’evoluzione della società. Si pensi solo che il latino pecunia trae origine da pecus, ovvero bestiame, utilizzato nella notte dei tempi come bene di scambio. Progressivamente si imposero oro e argento per le loro qualità fisiche ed estetiche, nonché perché meglio divisibili degli animali in frazioni minori. Per evitare la continua pesa dei metalli si instaurò l’uso del conio in moneta, prodotta normalmente dai proprietari terrieri. Si ricordi che fino al ‘500 non si può parlare di Stato in senso moderno (inesistente il moderno concetto di sovranità e non a caso il termine stesso, usato per la prima volta con connotazione istituzionale da Machiavelli); le monete erano quindi essenzialmente di natura privata e in concorrenza tra loro.

Nel Tardo Medioevo, con l’aumento dei commerci, la fantasia del mercato produce una nuova variante di moneta: la lettera di cambio. Anziché portare con sé il peso delle preziose monete, preda appetitosa di briganti, questa antenata della moderna cambiale risultava molto più pratica.

Oggigiorno siamo abituati a pensare alla moneta come ad un prodotto dello Stato, propria di ogni Nazione. Basti tuttavia l’osservazione di alcuni paesi dell’Europa dell’est o dell’America Latina, che hanno adottato il dollaro per tutte le transazioni a medio termine, per capire che tra le valute vi è concorrenza. L’uso spontaneo del dollaro come moneta quotidiana in molti paesi non è altro che la dimostrazione di quanto i cittadini locali preferiscano quella moneta a quanto il governo offre loro.

Se per di più considerassimo la storia anche solo degli ultimi 200 anni, costateremmo la sistematica presenza di monete (soprattutto banconote) private. Una banconota, nella sua natura, non è altro che una ricevuta al portatore di un deposito, rilevabile in ogni istante. Il normale controvalore era costituito da monete metalliche e più tardi direttamente da lingotti d’oro (la cosiddetta base aurea), abitudine persa solo e non a caso in questo ultimo secolo. Una volta dichiarata monopolio pubblico, la moderna carta moneta non è altro che carta stampata, che non dà più nessun diritto al rispettivo controvalore. Il controvalore delle monete moderne è costituito per lo più da divise estere – quindi a loro volta da altre monete statali – e da titoli finanziari.

Le Banche Centrali

Perché una moneta statale dunque? Semplicemente perché gli Stati, continuamente con l’acqua alla gola per finanziare le proprie campagne militari, spesso si vedevano negati i necessari crediti dai banchieri privati, che valutavano una determinata guerra troppo rischiosa per prestare i loro capitali.

Come dire che i banchieri privati fossero più avversi alla guerra di quelli pubblici. Tanto che, per finanziare la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti furono costretti a dare nel 1913 alla Federal Reserve lo statuto di monopolio, che tagliando immediatamente il tasso minimo di riserva delle banche commerciali ingenerò un raddoppio del volume di crediti, molti dei quali “casualmente” andarono a finanziare i war bonds

Ma retrocediamo di un secolo per scoprire che fu Napoleone ad instaurare la prima Banca di Francia, prettamente privata, per finanziare le proprie campagne militari. La banca non a caso fallirà dopo Waterloo. Fino al 1848 si riassisterà al cosiddetto free banking: all’assenza di una banca centrale e alla produzione privata di moneta. Solo nel 1936, sempre restando sul caso francese, la Banque de France verrà nazionalizzata (impresa privata a partecipazione maggioritaria dello Stato) e nel 1945 statalizzata (proprietà interamente pubblica) e dichiarata – attraverso una legge che lo Stato stesso scrive – l’unica autorizzata ad emettere franchi francesi.

L’aspetto divertente nella questione è che certi economisti giustifichino la creazione di una banca centrale con l’argomento di un produttore fidato – lo Stato – di valuta. I privati erano responsabili di regolari crisi monetarie, stampando banconote di cui risultasse in seguito non avessero il necessario controvalore. Peccato che gli altissimi tassi inflazionistici degli anni ’30 in Germania e degli anni ’60 e ’70 in tutto il mondo occidentale non siano stati propriamente causati da banche private…

Più di due millenni di sviluppo dell’umanità non sono stati accompagnati dalle banche centrali. Dobbiamo capire prima di tutto che si tratta di istituzioni proprie dello statalismo divagante negli ultimi centocinquanta anni, che potrebbero facilmente sparire al suo fianco chiudendo una sfortunata parentesi storica.

Euro sì o Euro no?

Empiricamente si sa che una Banca Centrale indipendente dal governo tenda a generare tassi di inflazione minori. Un governo interventista è attirato dall’inflazione, che a cortissimo termine ha (pochi) effetti benefici sulla disoccupazione e che soprattutto cancella senza remore i debiti contratti negli anni precedenti, fissati nominalmente. L’indipendenza della BCE dai singoli governi nazionali porterà in questo senso chiari effetti benefici, di cui per esempio l’Italia sta già parzialmente godendo, avendo ormai dimenticati i passati tassi inflazionistici.

Quali i problemi dell’Euro? Abbiamo capito che le monete stanno in concorrenza tra loro, come qualsiasi merce, ed è proprio questo che l’Euro già da un anno e mezzo impedisce. L’Euro, indipendentemente se sia necessario o meno, ha drasticamente ridotto la concorrenza tra le valute europee, cancellando l’immagine di un marco tedesco come moneta di buona qualità – non a caso adottato in molte regioni della ex-Jugoslavia – contro una lira sempre pronta alla svalutazione. Questa è una terribile invadenza nella libertà di scelta individuale.

Applichiamo il principio di concorrenza…

Pascal Salin, professore di economia a Parigi e già presidente della Mont Pélérin Society, non nega che l’Euro possa essere una bella invenzione: semplicemente non lo sappiamo e soprattutto non lo sa nessun tecnocrate. Proprio su questo argomento si instaura la posizione più radicalmente liberale: come su qualsiasi mercato, solo un regime di concorrenza può permetterci di capire ex post se un nuovo prodotto sia stata una buona idea o un totale flop. Che fare dunque? L’Euro indubbiamente risulta molto utile per chi viaggia, e forse anche per chi non si fida più troppo di certe monete nazionali. Introduciamo dunque sul mercato delle valute un nuovo prodotto, l’Euro appunto, offerto da una nuova impresa che si chiama Banca Centrale Europea (per quel che ci riguarda addirittura anche privata), in regime di cambi flessibili con le altre valute. Come decisione politica si permetta il corso legale di questa moneta in tutti i paesi dell’Unione, e poi si lascino le forze del mercato – ovvero le preferenze delle persone – agire in piena libertà. Subito scopriremmo quale sia la fiducia nel nuovo prodotto, perché sarebbe ancora possibile una via di uscita. Che l’Euro sia l’ultimo frutto dello statalismo è chiaro dalla mancanza di scelta valutaria. Mancanza fortunatamente non assoluta, tanto che ci sono già state abbastanza persone che hanno creduto migliore il dollaro, portandolo progressivamente ai livelli odierni.

Secessione monetaria.

La proposta di Salin è molto semplice nell’applicazione e non può peggiorare la situazione del prima-Euro, dato che gli increduli potrebbero rimanere con le vecchie valute in tasca. Ci sarebbero tuttavia altre varianti comunque preferibili a quanto gli abitanti di oltreconfine vivranno tra quattro mesi: benché in un regime di cambi fissi come quello attuale, tollerare la parallela circolazione sia di Euro sia delle vecchie monete nazionali. Con un grande vantaggio: chi viaggia utilizzerebbe la nuova valuta comune, gli altri invece potrebbero continuare a calcolare nei vecchi prezzi. A questo proposito è esemplare come i politici minimizzino il problema del salto di unità di misura e sottovalutino lo sforzo di milioni di cittadini, obbligati loro malgrado a questo cambiamento. Difficile ritenere questo un atteggiamento liberale…

La circolazione fisica parallela delle vecchie valute permetterebbe per di più una rapida secessione monetaria nel caso la barca Euro inizi a colare a picco. Ma, ahimè, è chiaro che non si tratterebbe di una buona mossa per la coesione europea, il che la dice lunga su cosa si muova dietro alla valuta comune, piuttosto un rullo compressore che spiani la strada al vero obiettivo: l’unione non monetaria bensì politica.

Un’analisi insomma che sfaterebbe la pretesa di molti socialisti di avere un’Europa dell’economia. Purtroppo non è così: l’Europa è dei politici, non dell’economia. E non lo è neppure dei cittadini che subiscono le decisioni tecnocratiche.

Sempre nella nostra graduale lista di alternative al progetto ormai alle porte vi è quanto realmente, stando a Guy Millère, membro della Banque de France e professore di economia a Parigi e Standford, la Bundesbank farà: lo stoccaggio dei vecchi marchi, e non la distruzione fisica come promettono di fare i francesi. I saggi tedeschi preferiscono tenersi in tasca la chiave della porta di uscita.

Secondo alcuni professori di economia monetaria a Marsiglia, prima del primo gennaio prossimo almeno uno stato europeo salterà all’ultimo momento dalla nave dell’Euro, rifiutandosi di cedere la propria sovranità monetaria. Si potrebbe trattare dell’Austria o della Danimarca. La tesi ha assunto natura ludica tanto trasformarsi in scommessa tra colleghi di accademia…

Aree valutarie ottimali

Perché mai l’Euro dovrebbe essere un flop? Anche qui la teoria economica non manca di apportare argomenti. I contributi più interessanti arrivano forse dalla cosiddetta teoria delle aree valutarie ottimali, all’estensione territoriale cioè che una valuta dovrebbe avere. E cos’è l’Euro se non un grande riaggiustamento dei confini in cui una moneta deve valere? Il prof. Colombatto dell’Università di Torino argomentò proprio in questo modo al convegno “Europa, l’ultimo Leviatano” organizzato a Milano in concomitanza dei trattati di Nizza per spiegare quale fosse la posizione coerente del liberalismo in materia: apertura dei commerci e nessuna globalizzazione politica.

Sappiamo che regionalmente vi sono particolarità produttive, non da ultimo legate anche a fattori climatici, presenza di infrastrutture, personale qualificato, particolarità geografiche e quant’altro ancora. In tutto il mondo la produttività del lavoro e del capitale è quindi differente.

Analizziamo allora un classico esempio di unione monetaria fallita, quella italiana, per comprendere la suddetta teoria. È un dato di fatto che nord e sud Italia non siano omogenei nelle rispettive capacità produttive: il primo con maggiori produttività ed intensità di infrastrutture, il secondo più agricolo. Se esistessero due Lire, una meridionale e una settentrionale, probabilmente la prima sarebbe più debole della seconda, facilitando così la produzione meridionale e le relative esportazioni e riflettendo la minore produttività. Nell’assenza di questo ammortizzatore valutario, i prezzi dovrebbero svolgere sussidiariamente questa funzione. In effetti si nota, non a caso, un minore livello dei prezzi al sud. Se tuttavia anche i prezzi sono rigidi, la disparità di produttività può compensarsi in un solo modo: con lo spostamento dei fattori di produzione. Ed è quanto purtroppo è storicamente avvenuto: proprio perché le possibilità di lavoro nel Meridione non erano gran cosa, migliaia di persone si spostarono verso nord, un fenomeno ampiamente predetto dalla teoria. Lo stesso vale per i capitali, che vengono investiti al nord anziché al sud. Secondo la teoria di Ohlin sul commercio internazionale, questo porta alla produzione di beni a forte intensità di capitale laddove vi è relativamente maggiore disponibilità di capitale (al nord) e di beni a maggiore intensità di manodopera laddove vi è in termini relativi maggiore disponibilità della stessa (il sud), accentuando quindi le specializzazioni regionali.

Fino al secolo scorso, quando le banconote erano prodotte privatamente, esisteva in sostanza un regime mondiale di cambi fissi, riferendosi tutte le valute private allo stesso bene: l’oro. Allora tuttavia i tassi di crescita economica erano ancora modesti e i prezzi relativamente flessibili. L’introduzione di una moneta unica oggi, in presenza di differenze di produzione e di prezzi ingessati da mille regolamentazioni, equivarrebbe ad un tremendo stimolo di emigrazione dai paesi meno produttivi verso quelli più produttivi, nella fattispecie dal sud al nord Europa, dove vi è una maggiore produttività del lavoro a causa della maggiore intensità di infrastrutture.

Altri esempi di unioni monetarie fallite (ovvero dalle forti conseguenze socioeconomiche) sono quella belga ed in parte quella tedesca. Al loro contrario gli Stati Uniti, sviluppatisi tutti nello stesso arco di tempo, sono molto più omogenei tra loro, tanto che il dollaro non abbia causato forti tensioni interne.

Le vere ragioni dell’Euro

Detto questo possiamo lentamente comprendere quali siano le dinamiche di fondo – forse addirittura non volontarie – che si muovono dietro a questo immenso progetto monetario: la costruzione di un vero e proprio Stato Europeo. Stando alla teoria delle aree valutarie ottimali ci sarebbe da aspettarsi un aumento degli spostamenti di persone sul continente europeo, tutte alla ricerca del lavoro meglio remunerato. Abbiamo detto che, ordinati per grado, gli ammortizzatori di differenze di produttività sono i cambi flessibili, i prezzi flessibili o la flessibilità delle persone stesse. In realtà ci sarebbe una quarta possibilità per ovviare alle disparità naturali e storiche tra le regioni: una gigantesca ripartizione. Ecco allora svelato l’arcano: ci sono forti motivi di credere che, a medio termine, proprio l’introduzione dell’Euro potrebbe condizionare un aumento dell’attività di ripartizione, giustificando così il nascente Stato Europeo nel suo nobile scopo di attutire le disparità regionali tra i suoi cittadini. Disparità accentuate tuttavia dalla mancanza di alternative monetarie, dai prezzi ingabbiati in mille regolamentazioni per difendere i consumatori e dalla bassa mobilità – essenzialmente per motivi culturali e linguistici, al contrario dei cugini americani – dei cittadini europei. Il puzzle interventista sembra dunque prendere forma.

Un cul de sac?

Negli ultimi decenni stiamo vivendo due tendenze contrapposte. Da una parte la progressiva apertura dei mercati, la specializzazione internazionale della produzione e il conseguente aumento dell’intreccio di relazioni tra tutte le parti del globo. In una parola la mondializzazione economica. Dall’altra un continuo aumento, perlomeno nei paesi occidentali dove vi sono abbastanza risorse per farlo, della megamacchina statale, che invade progressivamente sempre più aspetti della nostra vita, non più tanto con gli strumenti dell’economia e della produzione di stato, quando quelli della fiscalità e della regolamentazione. Chiameremo questa seconda tendenza globalizzazione politica. I suoi frutti sono tipicamente l’UE e l’ONU, che rivendicano sempre maggiori competenze e si avvicinano ad un vero e proprio Stato.

Siamo in un cul de sac? In una via senza uscita? Si può sperare di no e comprendere gli argomenti in proposito.

Al contrario di quanti vedono lo sviluppo dell’umanità come una linea retta, una visione circolare ci aiuterebbe a comprendere che nella storia le due tendenze, quella della società civile o spontanea e quella della società coartata o organizzata si sono vicendevolmente succedute. Anche in campo valutario, che abbiamo visto non è altro che una delle tante manifestazioni del mercato e del libero e spontaneo incontro tra persone – quello che Hayek avrebbe chiamato catallassi –, si possono presupporre reazioni alla costante invadenza della pianificazione e dell’autoritarismo centrale, di cui l’Euro non è che l’ultimogenito.

Al contrario di pessimistici scenari di crisi mondiale e di un Euro in continua caduta libera, molti pensatori liberali propugnano una visione dinamica di letterale sfaldamento delle funzioni statali, sistematicamente inefficienti ed incapaci di risolvere i problemi che ne giustificavano l’attività.

Si pensi per esempio ai servizi di sicurezza privati in continuo aumento, per il momento di solo appannaggio dei ricchi, come dimostrazione del fallimento della polizia statale. O ancora alle differenze della tutela ambientale tra demani pubblici e possedimenti privati. O ancora alla costruzione e gestione di strade e città private, che in America si sta facendo progressivamente strada. Molti enti pubblici, anche in Svizzera, si rivolgono a imprese private per risolvere i propri problemi o per delegare funzioni che quest’ultimi sanno eseguire a costi minori. Anche in campo monetario, la fantasia del mercato potrebbe spuntarla.

Su Internet stanno già nascendo delle monete private. Tizio apre un’impresa e, in cambio di una garanzia reale – come un’ipoteca o dei titoli blue chip o anche delle valute –, emette i suoi “beans” che vengono utilizzati per gli acquisti sulla rete, equivalenti a continue registrazioni contabili nella contabilità di Tizio. Il commerciante poi potrebbe in ogni istante ricambiare i “beans” in beni reali, magari con una piccola commissione che ricompenserebbe Tizio per il suo servizio. Avremmo a tutti gli effetti un bene di scambio, totalmente privato, la cui diffusione dipenderebbe dalla buona reputazione che Tizio saprebbe crearsi in un mercato libero.

Senza andare così lontano si noti che qualsiasi merce può svolgere la funzione di moneta, il fattore decisivo sta nella sua liquidità, ovvero nella possibilità di scambiarla a sua volta contro un’altra merce. Con il progresso nelle tecnologie della comunicazione e dei trasporti, molti beni un tempo illiquidi diventano sempre più liquidi. Si pensi solamente a obbligazioni ed azioni, che possono assumere funzioni simili a quelle del denaro, con il grande vantaggio di produrre anche una rendita (al contrario del denaro, immobile finanziariamente). I sostituti alle tradizionali valute si fanno sempre più strada, e non sarebbe fuori luogo ipotizzare non un crollo, bensì un semplice, lento e progressivo disuso delle tradizionali monete (nel nostro caso dell’Euro), che resisterebbero solamente come unità di computo.

Transazioni con controvalore in titoli, il cui valore è espresso in Euro come una lunghezza è espressa in metri. Ecco cosa potrebbe riservarci il futuro. L’antidoto della società spontanea alla voglia di costruirne una ideale, purtroppo storicamente sempre più dannosa dei mali che si volevano combattere.

Paolo Pamini

Università di Zurigo


Euro al via / Parla il ministro Antonio Martino
"Ma si rischia un fallimento"

«Spero di sbagliarmi, però...». Però nel giorno in cui la grancassa europeista tocca toni da pensiero unico, Antonio Martino non rinuncia alle proprie idee, esce dal coro e lancia l'allarme: «Ci sono grossi rischi che, per come ci si è arrivati, l'esperienza dell'euro si concluda con un fallimento». Spera di sbagliarsi, l'economista cresciuto alla scuola europroblematica di Chicago, ma il fatto di essere ministro (della Difesa) del governo euroentusiasta di Silvio Berlusconi non lo induce a maggiore diplomazia. Anche perché, dice, «è francamente intollerabile che ogni volta che qualcuno solleva un minimo dubbio sul percorso intrapreso dall'Europa venga scomunicato con l'etichetta spregiativa di "euroscettico"».

In effetti, ministro, tra i governi dei Dodici sono pochi quelli che "sollevano dubbi".
E fanno male. L'assurdo è che questi paesi hanno deciso di rinunciare alla propria moneta senza alcun dibattito, proni a un dogmatismo per il quale l'idea di Europa è una sola: o l'accetti o sei un nemico.

Vale per tutti?
In modo particolare in Italia si è preferito rinunciare a pensare: la gente cade nel vecchio vizio di credere che altri, stavolta l'Europa, risolveranno tutti i nostri problemi, i politici sanno che l'idea di Europa è popolare e dunque non si azzardano a metterla in discussione.

Il suo maestro, l'economista Milton Friedman, è convinto che l'euro aggraverà le tensioni politiche.
Il rischio c'è. D'ora in avanti la politica monetaria sarà solo una e non è affatto detto che andrà bene a tutti. Ad esempio: se la Germania ha bisogno di una politica antinflazionistica e la Francia antirecessiva, cosa farà la Banca centrale europea?

Secondo lei?
Beh, dal momento che nessuno ha pensato di introdurre regole e parametri che fissino le linee della politica monetaria comune, quando gli interessi nazionali divergeranno c'è da credere che la Bce sarà sensibile alle istanze dei paesi più grandi.

Se, poniamo, il nostro interesse dovesse confliggere con quello tedesco...
...è ragionevole ipotizzare che non saremo noi ad essere accontentati, certo.

C'è dunque da augurarsi un'accelerazione verso l'unità politica?
Non credo. Nel ventesimo secolo le grandi inflazioni le hanno fatte i governi per finanziare le proprie spese: la mancanza di un governo unico non è necessariamente un male. Ci sono casi di unificazione monetaria che non prevedono quella politica.

Ad esempio?
Il Belgio e il Lussemburgo: stessa moneta, ma governi diversissimi. Senza contare che, oltre alle potenziali divergenze in tema di politica monetaria, un freno all'unità politica sarà l'assurdo sovraccarico di competenze dell'agenda europea: quanto più aumentano le prerogative dell'Unione, tanto più si allontana l'unità. Ma il pericolo più grave è un altro...

Quale?
Il modo in cui gli europei reagiranno all'euro.

Pessimista?
Mi limito ad osservare che nei tre anni in cui c'è stato l'euro virtuale, ottocentomila miliardi sono usciti da questa zona per essere investiti altrove.

Un segno di scarsa fiducia?
Non c'è dubbio. E poi ci sono i sondaggi d'opinione: in Germania la popolarità dell'euro è al 34 per cento e in tutt'Europa è al 46 per cento.

Non può essere solo un naturale conservatorismo destinato a mutare?
Si, certo, non voglio drammatizzare. Dico solo che i dati che abbiamo inducono al pessimismo. Non dimentichi che quando, il primo gennaio 1999, fu introdotto l'euro virtuale tutti prevedevano che si sarebbe rafforzato nei confronti di tutte le monete e del dollaro in particolare.

Previsione avventata?
Eh, sì: l'euro si è fortemente deprezzato non solo rispetto al dollaro, ma persino rispetto allo sloti polacco e alla pataca di Macao.

Professore, lei sembra certo del prossimo rigetto dell'euro.
No, affatto, ma il rischio c'è e mi sembra incredibile che nessuno l'abbia preso in considerazione...

Nel senso?
Nel senso che sarebbe stato logico creare già tre anni fa la nuova moneta per farla circolare a lungo accanto alle monete nazionali: in tal modo io credo sarebbe stata accettata spontaneamente, così, invece, viene imposta e gli obblighi possono sempre produrre reazioni non desiderate.

Eppure, il premio Nobel Robert Mundel vede nell'euro la panacea di tutti i mali...
Mundel lo conosco bene, è economista di valore, ma contraddice se stesso.

Cioè?
Beh, ha sempre detto che la moneta unica serve in zone economicamente omogenee caratterizzate da forte mobilità dei fattori: l'Europa, però, ha caratteristiche diverse. Quando ci fu la seconda crisi del petrolio, la California visse una grande depressione e centinaia di migliaia di californiani andarono a lavorare in Texas... Lei crede che una cosa del genere possa accadere in Europa?

 

I tecnocrati dell'euro

«Chi si appresta a sfogliare queste pagine sia messo in guardia: ogni mutazione dei sistemi monetari è per i cittadini fonte di problemi, disagi e anche fregature». Tale è l'incipit che Giancarlo Galli, il giornalista economico ben noto ai lettori di Avvenire, appone al principio delle 348 pagine del suo ultimo libro: Euro, la grande scommessa, che Mondadori manda in libreria a giorni (lire 33.000).

Sbaglierò, ma dalle prime righe non dai l'impressione di essere un sincero entusiasta della nuova moneta europea.

«Cosa vuoi, l'euro sembra perseguitato dalla malasorte. Fosse almeno entrato in circolazione in tempo di boom economico. Invece l'avremo in tasca oggi, dopo il tragico 11 settembre».

Cioè?

«Sull'orlo di un periodo di recessione, e non solo: di blocco del processo di globalizzazione causato dal terrorismo globale. Una crisi carica di incognite, sul cui sbocco nessuno azzarda previsioni. E arriva bel bello l'euro».

Tu, nel libro, dici che ci porterà inflazione. Ma dall'11 settembre si teme il contrario, la deflazione.

«Già. Si delinea una deflazione da crollo della domanda (i prezzi calano perché si compra meno), congiunto a un'inflazione da prezzi. Sembra una contraddizione in termini, ma guardate le compagnie aeree: hanno aumentato i prezzi anche se la domanda dei viaggiatori è calata drammaticamente, perché devono continuare a pagare le spese vive, e i debiti...non è mai accaduto. È una delle maligne novità con cui dovremo fare i conti».

Insomma l'euro ci porterà rincari?

«Di sicuro, a causa dei famigerati "arrotondamenti". Giornali, caffé, e simili: non è mai accaduto nella storia che il commerciante arrotondi a vantaggio dell'acquirente. E tutti tacciono del costo della pura e semplice operazione di cambiamento di moneta, che poi semplice non è. Valutato (ma in segreto) a 50-100 miliardi di euro».

Non sembra una gran cifra.

«Sono 100-200 mila miliardi di lire».

Cifra grossa. Ma bisogna abituarsi a pensare in euro.

«Faccio solo notare che mai nella storia un cambio di moneta è avvenuto in momenti di crisi. Cesare creò l'aureo dopo la conquista delle Gallie. Carlo Magno introdusse la lira argentea dopo la proclamazione del Sacro Romano Impero. Napoleone rinnovò il franco dopo aver conquistato l'Europa intera. Come vedi...».

Che cosa c'è da vedere?

«Le grandi riforme monetarie della storia hanno seguito immensi momenti di unificazione politica. L'euro arriva invece prima dell'unificazione europea, e proprio mentre appare alquanto in pericolo».

Con quali conseguenze?

«Vedi tu. Pensa solo a Paesi deboli che usavano la svalutazione della moneta nazionale per compensare la loro scarsità competitiva».

Fra cui l'Italia. Però possiamo consolarci: l'euro, che tutti prevedevano "moneta forte", non fa che indebolirsi sul dollaro.

«Poveretto, in due anni ha perso quasi il 40 per cento».

Perseguitato dalla malasorte?

«Se vuoi crederlo. Ma si può dire ben altro: che i tecnocrati non hanno valutato appieno certe conseguenze del cambio di valuta su scala continentale».

Per esempio?

«L'economia sommersa, quella che evade le tasse e i controlli, e quella illegale e addirittura criminale. Un giro d'affari mostruoso: per il nostro Paese si parla di 300-400 mila miliardi. E dove le transazioni avvengono per lo più in contanti, per non lasciar tracce».

Ebbene?

«Ora, fra due mesi, i rispettabili detentori di quella montagna di contanti dovrebbero presentarsi alle banche e cambiare le lire in euro, pena l'azzeramento del loro patrimonio. Te li vedi i criminali depositare valigie piene di banconote? Ci sono leggi antiriciclaggio, le banche sono tenute a domandare».

Tu stesso scrivi che chiuderanno un occhio.

«Ma il business criminale è già corso ai ripari. Già dalla primavera del 1999 ha cominciato a cambiare le lire, i marchi, gli scellini e i franchi (mal) guadagnati in dollari e yen. E' questa una delle cause inconfessabili del continuo ribasso dell'euro. La legge della domanda e offerta».

E pensare che gli eurocrati prevedono il contrario. L'euro, ci ripetono ancor oggi, farà del Continente un vero mercato unico, con 300 milioni di consumatori ad alto reddito. Ciò attrarrà un fiume di capitali esteri, ansiosi di investire da noi...

«L'auspicato fenomeno ha mancato di verificarsi».

Deprimente.

«Se vuoi un motivo d'ottimismo, eccolo: la rivoluzione monetaria offre anche un'opportunità irripetibile. Fare emergere masse di liquidi dall'economia "nera" a quella "pulita"».

Fidarsi della nostra classe politica?

«D'accordo, l'euro è stato introdotto sorvolando la democrazia. I pochi referendum tenuti (non in Italia) hanno registrato dei sonori "no"».

Vox populi, vox Dei? Buonsenso popolare inascoltato?

«E pazienza. Se almeno i famosi e celebrati tecnici non avessero commesso grossolani errori di valutazione».

Ad esempio?

«Beh, basta ricordare che l'euro nacque come una dichiarazione di guerra alla potenza economica americana. Con in mano un "dollaro europeo", il continente marcerà unito, e farà concorrenza agli Usa. Così si diceva».

Io ricordo quel che diceva Tommaso Padoa Schioppa, uno dei padri dell'euro. La nuova moneta sarà così forte da provocare crisi "asimmetriche" (diverse da Paese a Paese), a tal punto che i governi ci chiederanno in ginocchio di accelerare l'unificazione politica d'Europa. Detto da uno che politico non è.

«Lasciamo stare, Padoa Schioppa è uno dei migliori. Ma tutti i tecnocrati hanno un caratteristica in comune: non guidano l'auto di persona, non fanno benzina, non entrano in un supermercato...».

Non sanno quanto costa un etto di prosciutto.

«Fosse solo il prosciutto. Non sanno quanto costa un biglietto aereo».

Certo. Sono pagatissimi e spesati in tutto. Da noi contribuenti.

«Così, han finito per essere completamente staccati dalla realtà. La loro "realtà" sono i modelli matematici. Conseguenza: queste caste superiori ragionano come ragionava la Cia prima di Ben Laden: pensava di ascoltare tutto grazie ai satelliti e ai computer. E invece avevano bisogno di infiltrati di lingua pashtun».

Allora: no all'euro?

«Ormai. Io penso come gli inglesi: right or wrong, my currency. Giusta o sbagliata, sarà la nostra moneta».

 

Euro, la moneta
che non c'è


di Ida Magli
21 Aprile 2001

E' il titolo con il quale l’Italia-INvest.com  ha riassunto l’intervista che un suo giornalista ha fatto al Prof. Giacomo Vaciago, uno dei padri nobili dell’euro. Si tratta di un discorso che fa impressione anche a chi, come gli Italiani Liberi, sa bene quale sia l’abisso di noncuranza e di dominio verso i sentimenti e gli interessi dei popoli con il quale è stata progettata l’Unione Europea.

Gli economisti e i banchieri sono stati spericolatamente mandati avanti dai politici per occupare un territorio non conquistato e non conquistabile in altro modo. Si è trattato di una operazione facilissima, calata dall’alto sulla testa dei cittadini in quella specie di mondo virtuale, praticamente inafferrabile, che è appunto il mondo "simbolico-concreto" del valore monetario. Ma leggendo l’intervista a Vaciago, nella quale i costruttori dell’euro alzano allegramente le spalle di fronte alla sua svalutazione perché: " l’Euro è soprattutto un miracolo, è la moneta di un Paese che non c'è", si rimane davvero atterriti. Un miracolo? Una truffa, vorrà dire il Prof. Vaciago, una spaventosa, macroscopica truffa, perché così si chiama nel diritto comune mettere in commercio una cosa che non esiste. E l'euro è dunque una moneta falsa.

Cosa debbono fare adesso i popoli i cui governanti sono dei truffatori? Fabbricare in tutta fretta l’oggetto inesistente che è stato messo in commercio, per non disonorare i loro governanti, così come si è soliti fare quando il capo di casa si è giocato i soldi al Casino? Ossia, come dichiarano i politici, realizzare al più presto quel Superstato che abbia il diritto di battere moneta vendendo tutti i beni di famiglia: territorio, sovranità, indipendenza, patria, lingua, cultura? Ebbene, no. L’obbedienza supina ai governanti quando ci portano alla rovina per giunta mentendo e truffandoci, non soltanto non è un dovere, ma è una gravissima colpa da parte dei cittadini. A che serve, altrimenti, la democrazia?

Gli Italiani, inoltre, sono stati truffati in maniera peggiore degli altri popoli, non soltanto con l’assoluta mancanza di informazione sui problemi dell’Unione Europea, ma anche perché i governanti si sono serviti di una norma della Costituzione (una norma del tutto illiberale e che deve essere modificata con la prossima legislatura) che esclude la volontà dei cittadini dalla politica estera. Si tratta, come è chiaro, di una truffa nella truffa visto che nulla appartiene tanto alla politica interna quanto la moneta.

Comunque, stando così le cose, è indispensabile premere con tutte le forze su qualche partito affinché blocchi, almeno temporaneamente, i meccanismi perversi dell’euro. E’ una questione di puro buon senso di fronte ad una svalutazione - il 28% in due anni - quale forse la lira non avrebbe subìto se fosse rimasta fuori dall’unione monetaria. Questa è una supposizione incerta ma lecita dato che le monete dei Paesi che, pur facendo parte dell’Unione Europea, non hanno adottato l’euro, quali la Svezia, la Danimarca e l’Inghilterra, si sono rafforzate. Per non parlare della perdita catastrofica subìta dalla Germania con la svalutazione del marco, una perdita che si è risolta in una perdita anche per tutti i Paesi dell’Unione monetaria dato che i capitali che prima venivano investiti nel marco se ne sono andati e continuano ad andarsene verso il dollaro, verso la sterlina e verso il franco svizzero.

Insomma: non si può farsi governare dagli economisti e dai banchieri. Questi sono, non soltanto intrisi di spirito truffaldino al punto da non accorgersene, ma così incapaci di comprendere le immense interrelazioni che sottostanno ad un qualsiasi fenomeno umano che non riescono ad interpretare neanche quelle che riguardano il loro stesso campo. Eppure stanno sotto il loro naso. Perché mai, infatti, come hanno gioiosamente annunziato tutti i giornali economici in questi giorni, la gravidanza dell’Imperatrice del Giappone sarebbe in grado di ridare vigore allo strematissimo "yen"? Ai nostri illustri banchieri la risposta.

Roma, 21 aprile 2001

 

Contro-indicazioni dell'euro


di Antonio Martino

L'arrivo dell'Euro ha sicuramente delle controindicazioni. Solo l'ottimismo infantile di questi giorni le ha fatte passare in secondo piano.

Fino ad oggi, quando le nostre merci risultavano meno competitive di quelle dei concorrenti europei, per problemi di qualità o di costo, prima o poi si arrivava ad un aggiustamento sotto forma di svalutazione della lira. Era un processo negativo, ma molto meno penoso di quello che avverrà da oggi in poi con i cambi bloccati e la moneta unica: se l'Italia sarà meno competitiva degli altri, l'aggiustamento avverrà direttamente sotto forma di perdita di posti di lavoro e calo di reddito per gli italiani [importazione di disoccupati, ndr].

Immaginiamo che nei prossimi mesi e anni in Italia ci siano recessione e prezzi gelati, mentre in Germania l'inflazione faccia di nuovo capolino. […] Ebbene, sono situazioni diverse che presuppongono interventi diversi. Ma la politica monetaria europea potrà essere una sola. Allora, quale dei due problemi avrà la precedenza? L'Italia rischia di aver perso un pezzo di sovranità nazionale non a favore di un teorico governo europeo (che non c'è ancora), ma a favore dei paesi più forti d'Europa, i quali tenderanno ad affrontare i propri guai prima di quelli italiani.

Non è questioni di essere euroscettici, ma di guardare la realtà senza la lente deformante dell'applauso a comando.

 

L’euro: «Una moneta di cui nessuno si fida più»

Dopo l'inizio della caduta libera dell'euro, non sono molti a poter affermare di averlo previsto. Antonio Matrino invece sì, e non solo per il passato. Perché anche il futuro che si prospetta, secondo l'economista, è tutt'altro che roseo: «Io non baso le mie critiche sul fatto che sia inevitabile o necessaria una catastrofe. Dico che è prevedibile e che è stato folle non precederla».

Professore, gli indicatori economici degli Stati che non hanno aderito all'Unione monetaria appaiono migliori di quelli di Eurolandia. Come mai?

«Perché le affermazioni del tipo "senza l'euro le cose sarebbero andate molto peggio" sono cialtronerie. Intanto ci devono spiegare perché la Svizzera, che è un Paese piccolo, va benissimo, poi perché il Canada che è un Paese grande va altrettanto bene, e infine perché lo stesso vale per la Gran Bretagna che è un Paese di medie dimensioni».

A proposito, ora alcuni analisti sostengono che la quotazione dell'euro debba scendere a 75 centesimi di dollaro per poi rialzarsi magicamente...

«Quella si chiama voo-doo-economics. Il fatto è che l'euro e il dollaro sono monete fiduciarie. Non hanno come contropartita una base reale. Il valore non è legato a una quantità di qualcos'altro ma solo alla fiducia che riesce a riscuotere. Una moneta senza storia non può conquistare fiducia. Invece nel febbraio 1999 il 66% della popolazione europea aveva fiducia nella moneta unica. Oggi quella percentuale si è ridotta al 46%. Come si può imporre una moneta fiduciaria a chi non se ne fida? Ecco la causa della fuga di 80mila miliardi di euro [oltre 150 milioni di miliardi in lire, NB] negli ultimi due mesi. E questo fenomeno probabilmente si accentuerà, visto che è l'unica reazione possibile».

Secondo lei, cosa succederà all'euro?

«Ci sono due possibilità: la prima è grave, ma improbabile. È l'ipotesi che l'euro così debole induca i politici a rimandare la sostituzione delle monete nazionali, invece che nel 2002, più avanti. Ma i politici hanno tempi di reazione lentissimi e quindi non è facile che accada. La seconda possibilità è che si sostituiscano le monete, con il rischio di una prospettiva terrificante. Se l'euro continua a perdere, non rimane più nulla da fare».

Ma dall'euro, volendo, si può uscire?

«Questo è il problema. In una lettera privata, Milton Friedman mi ha scritto: “Dovresti raccomandare alla Banca d'Italia di non distruggere i clichet della lira”».

 

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