Federalismo “taroccato” in salsa ulivista

  di Roberto Enrico Paolini

La maggioranza ulivista, dopo quattro anni di immobilismo, messa alle strette dal riformismo del         “governatore” della Lombardia Formigoni, ha approvato una modifica della Costituzione italiana meglio nota come “legge sul federalismo”.

Di federalista però ha solo il nome, e in questo rispecchia fedelmente la tradizione culturale di chi l’ha votata: ex e post comunisti, democristiani di scuola dossettiana, verdi cioè rossi, e i vari cespuglietti tipici del sottobosco del belpaese sempre pronti ad ogni sorta di compromesso pur di sopravvivere. Sono gli stessi che, qualche anno fa, cavalcavano l’asinello di Prodi, ma oggi non è più di moda, oggi amano definirsi “liberal”, all’americana, molto snob, molto Veltroni. L’operazione di marketing serve a nascondere il loro passato, quando guardavano con ammirazione quei grandi paesi federalisti tipo l’URSS e la Yugoslavia: oggi, infatti, idolatrano la nuova URSS, l’Unione Europea, apparentemente buonista e politicamente corretta, ma in realtà autoritaria con chi non ne applaude l’azione (vedi le sanzioni all’Austria).

Questi signori sono noti per prendere in giro la gente, tanto, sanno che il popolo dei produttori, la vacca da mungere, è troppo impegnato a lavorare per star dietro alle loro malefatte, mentre la classe parassitaria, il loro serbatoio di voti, sarà sempre dalla loro parte.

L’ultimo inganno in ordine di tempo è lessicale: hanno partorito un asino e lo “vendono” come cavallo. Fateci caso: i politici ulivisti, quando parlano della loro riforma, usano aggettivare la parola “federalismo” con i termini “solidale”, “cooperativo”, “sociale”. E’ una fregatura. Il federalismo non ha bisogno di specificazioni, è una forma di organizzazione dell’ordinamento statuale con caratteristiche ben precise, senza le quali non esiste, è altra cosa.

Basta chiacchere, entriamo nel merito della “riforma”.

Il nuovo art. 114 della Costituzione, oltre a Regioni, Province e Comuni, annovera nuovi enti istituzionali quali le Città metropolitane. Per chi, come il sottoscritto, si è più volte pronunciato per l’abolizione delle Province, si tratta dell’ennesimo tentativo di creare nuovi “posti di lavoro” pubblici moltiplicando il numero delle istituzioni. Traduzione: più burocrazia, più lentezza, più guai per il cittadino, come se non fosse già sufficientemente penalizzato dall’esistenza di una lunga trafila di organi autoritativi da contattare per qualsiasi evenienza, tipo permessi, autorizzazioni, ecc. ecc.  Ma si sa, i grigi funzionari dell’Ulivo hanno fatto carriera in quelle oasi dell’ozio che sono le pubbliche amministrazioni

Al comma 3 il centralismo romano trionfa con la beatificazione della capitale: un monito per i padani più oltranzisti.

Il nucleo fondamentale della modifica costituzionale sta, però, nella riscrittura dell’art. 117.  Al secondo comma si enunciano le materie di esclusiva competenza statale: passi la politica estera, la moneta, la difesa, ma che cosa ci fanno competenze come immigrazione, giurisdizione e ordine pubblico, istruzione, previdenza sociale e tutela ambientale, tutte saldamente in mano allo stato centrale? Per non parlare poi della infinita elencazione di attribuzioni concorrenti: lavoro, salute, alimentazione, casse di risparmio ecc. ecc.

Per chi non lo sapesse “competenza concorrente” significa dare la possibilità di  legiferare sulle stesse materie sia allo stato che alle regioni, ma, di fatto, la libertà di queste ultime è gravemente compromessa in quanto, quasi sempre, lo stato centrale, con la promulgazione di dettagliate leggi-quadro, ne imbriglia l’azione.

Alla fine, una battuta di spirito: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.  Riepiloghiamo: una valanga di competenze a carico dello stato centrale, il resto, cioè niente, alle regioni.

Troppo arrogante come presa per i fondelli, e allora ecco che l’art. 116 riformulato, dopo aver riconfermato il carattere puramente eccezionale delle regioni a statuto speciale, al terzo comma prevede, per le regioni che ne facciano  richiesta, una volgare forma di devolution all’amatriciana limitatamente alle materie di legislazione concorrente, e, per quanto riguarda quelle di legislazione esclusiva, giudici di pace, istruzione e ambiente.

Sulle questioni inerenti l’immigrazione, l’ordine pubblico e i beni culturali l’art. 118 ci informa che il “sovrano” è disposto a scendere dal trono e a concedere ai suoi sudditi l’audizione.

Non pago, il governo, all’art. 120, si è arrogato il diritto di sostituirsi alle regioni e agli altri organismi locali qualora questi si dimostrassero riottosi nel conformarsi agli ordini della “corte” o a quelle del nuovo Leviatano europeo (qui, Formigoni docet).

Non è tutto. Sappiamo che i governi, non avendo risorse proprie, sono soliti mettere le mani nelle tasche e nei portafogli dei cittadini, ma quella che all’inizio veniva spacciata per giustizia sociale, ormai ha assunto forme patologiche, è pura cleptomania istituzionalizzata.

All’art. 119, infatti, il legislatore ha dato la possibilità a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di istituire tributi propri, ma solo in aggiunta alla tassazione a livello nazionale. Questo per loro è il “federalismo fiscale”, ovvero “più tasse per tutti” parafrasando Berlusconi.  Insomma: i soldi rimangono ai banditi di Roma, e i “governatori” si arrangino: hanno voluto la bicicletta e adesso…E’ una trovata punitiva nei confronti di chi da anni reclama più autonomia, appositamente studiata per mettere in cattiva luce gli enti locali. Hanno diminuito le loro compartecipazioni al gettito dei tributi erariali in modo da lasciarli senza fondi, poi hanno concesso loro il potere di imporre nuovi tributi per finanziarsi, scaricando così sulle periferie l’inevitabile impopolarità dovuta al nuovo salasso fiscale.

Dunque il disegno politico è chiaro: disinnescare la bomba federalista che rischia di erodere il potere arroccato nei ministeri romani. La sopravvivenza politica è ormai l’unico imperativo “morale” di uomini corrotti, senza una attività produttiva, abituati a vivere sulle spalle di altri.

Il federalismo, quello vero, rappresenta, per loro, la fine degli sporchi giochetti nei corridoi di palazzo; al contrario, per milioni di onesti cittadini, rappresenta una occasione per riscattarsi da un fisco rapace e da leggi soffocanti, aliene alla cultura del fare.

Il federalismo senza aggettivi, sul modello svizzero, si basa sul principio di concorrenza tra ordinamenti giuridici. Anche in Svizzera negli ultimi anni è cresciuto il potere dello stato centrale, ma senza raggiungere livelli di vera e propria oppressione, idem per la tassazione. Subito, all’art. 3 della Costituzione svizzera (anche la collocazione è importante, non all’art. 117) si sancisce la sovranità del Cantone, il quale esercita tutti i diritti che non sono devoluti all’Autorità federale. E’ il Cantone a determinare le aliquote fiscali (art. 42-quinquies), a organizzare la giustizia e a gestire la sanità. Dove esiste una competenza concorrente, il centro è cauto nei suoi interventi, preferendo l’azione della periferia.

In pratica il politico è controllabile. Il suo raggio d’azione è limitato, dispone direttamente delle entrate fiscali. La dispersione del potere in una pluralità di entità statuali autonome crea una salutare competizione nella fornitura dei servizi pubblici. Il cittadino può rendersi conto, spostandosi nel cantone vicino, delle diverse modalità di impiego del denaro, delle differenti soluzioni legislative, delle più favorevoli politiche per la sicurezza. Questa situazione innesca un circolo virtuoso: nel momento in cui non riesce ad imporre anche nel proprio cantone le migliori politiche del vicino, può permettersi di andarsene: vota con i piedi! Immediatamente le istituzioni, per evitare una fuga di capitali, si adegueranno alla soluzione scelta da chi ha preferito traslocare.

In Italia, invece, anche dopo la riforma appena varata non cambierà nulla: sarà il governo nazionale a decidere per tutti gli Italiani, e alle Regioni lasceranno le briciole: qualche timbro per il permesso di soggiorno agli immigrati, la carriera del giudice di pace, ecc. Lo stato apparato, non avendo politiche differenziate al proprio interno, rimarrà come sempre inefficiente, e, agli Italiani che vivono del proprio lavoro, non resta che emigrare.

Insomma, il federalismo della banda ulivista è roba “taroccata”: è una volgare e rozza forma di regionalismo spacciata per federalismo.

Il federalismo non si costruisce dall’alto, ma, per essere tale, deve essere il frutto di relazioni paritarie tra differenti comunità che agiscono in base ad una cooperazione contrattata e condizionata. Il concetto di federalismo cozza con il principio di gerarchia su cui, invece, si fonda il regionalismo centralista di Roma, dove il potere è octroyèe, ovvero concesso dall’alto ad enti periferici in posizione subordinata.

Una costituzione federale non poggia su un’autorità sovrana, ma sovrano è il contratto. In quanto tale è soggetta a negoziazione continua, è flessibile, emendabile su iniziativa popolare. Le relazioni interne tra stati federati avvengono in linea orizzontale, non verticale.

Niente a che vedere con l’Italia, né prima, né dopo la finta riforma.

Il regionalismo autoritario del belpaese è solo lo squallido tentativo di una classe politica alla fine del proprio mandato per aggirare il bisogno crescente di pluralismo e libertà reclamato a gran voce dai cittadini.

(tratto da "La Gazzetta Ticinese") - Aprile 2001

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