Viva Gaber l'antibuonista
DI ALBERTO MINGARDI

Non c’era riuscito il crollo del muro di Berlino, non ce l’aveva fatta Tangentopoli. Persino i ripetuti affondi della globalizzazione hanno mancato il bersaglio.
L’Italia è un Paese ben strano, qui scrivere libri è come scrivere sull’acqua, scrivere articoli è come non scrivere affatto. 
Non c’è da stupirsi: la cultura italiana funziona come un grande salotto. Gerontocratica per esigenza, e per vocazione, vede continuamente certi signori vecchiotti (abbastanza per aver fatto il ‘68, almeno) rimbalzarsi la palla. Non che abbiano nulla da dire: se la menano ancora con le stesse pippe che si facevano in gioventù. Il fascismo, l’azionismo, Nanni Moretti, il ‘68 e il ‘77, l’amore di gruppo e quello individuale, gli amici in carcere e i colleghi fuori, quei libri orrendi che si montano a caso letterario non perché valgano, ma un po’ per cinismo e un po’ tanto per fare.
Il “dibattito”, è tutto qui. L’Italia che pensa non pensa nient’altro, forse non pensa più. E’ una bella addormentata.
Ed ecco che, quando avevamo perso tutti la speranza, quand’eravamo sicuri che non ci fosse modo di inchiodare gli intellettuali alle loro precise responsabilità, arriva il principe azzurro. E’ tornato Giorgio Gaber.
Del ping-pong di lodi sperticate e rancorose accuse che ha suscitato “La mia generazione ha perso”, il suo nuovo cd, qualcosa è arrivato anche sulle pagine di “Libero”. 
Sabato scorso, don Mazzi ha fatto sapere di non gradire l’autocritica del signor G - l’unico, di questa sua generazione, ad aver seppellito il ‘68. A stretto giro di posta, Ombretta Colli (signora Gaber) ha replicato che attaccare il marito per colpire lei non è cosa che si addica a un ministro di Dio. La Colli ha perfettamente ragione, e non è il caso che lo dica io.
Però non credo che quello di don Mazzi fosse “solo” un attacco politico. Anche. Ma soprattutto s’è trattato della reazione, comprensibile e comprensibilmente arrabbiata, di uno che incarna tutto quello di cui Gaber vorrebbe insegnarci a diffidare.
Dovete sapere che il signor G è un maître-a-penser nel senso più vero del termine, cioé è uno che ti insegna a pensare, ti dà la sveglia, prova a farti aprire gli occhi. O lo si ama o lo si odia, tertium non datur. Sicuramente sono di più quelli che non l’apprezzano.
Già, perché Gaber è tipo che “non fa il tifo neanche per la democrazia”, anzi ha scritto in tempi non sospetti che è una “cosa sporca”, somiglia al gioco del lotto “solo che al lotto il popolo qualche volta vince, in democrazia mai”.
Ma, soprattutto, s’è macchiato del crimine supremo. In un’epoca dominata da una “parvenza d’altruismo compiaciuto chiamato solidarietà”, s’è azzardato a sparare sulle “nuove suffragette piene d’isteria” che intonano inni alla fratellanza universale. 
“La razza in estinzione” a don Mazzi non è propria piaciuta. Sfido io. Gaber canta che “non mi piace chi è troppo solidale, e fa il professionista del sociale” - è l’identik perfetto di quei pretonzoli all’olio d’ulivo, che infestano i grandi media e brandiscono un Vangelo formato Das Kapital. Massì. Quei carnefici falliti che nel mondo d’oggi giocano a fare gli “educatori”. Quelli che vogliono seppellire il libero arbitrio (senza accorgersi che fanno fuori Gesù Cristo, insieme a lui), per una malsana smania di “sanità”. Sarà un errore di stampa.
Più modestamente, Gaber è un uomo che con gli anni ha fatto i conti con la storia. Diciamo la verità, è triste leggere Lerner che l’incensa. Doversi sorbire un Curzio Maltese che non ha capito un’acca di quest’ultimo disco, e per commentare un brano splendido, un pezzo di micidiale trasparenza tira in ballo l’antisemitismo. Non c’entra nulla, ma è come il bianco, va su tutto.
A differenza di Lerner, e di Maltese, il signor G soppesa i torti del passato e le ragioni del presente. Si scaglia contro il buonismo di maniera, le “generose” utopie finite nel sangue, il politically correct che ha fatto di certe madonnine infilzate degli eroi nazionali.
Spirito libero e spirito critico, Gaber non è solo distruttivo, non si limita a fare tabula rasa dei nostri totem e dei nostri tabù (ed è già tanto). Abbozza una soluzione alternativa. Ritornare, diceva in una canzone disgraziatamente non inclusa in quest’album, a quell’ “egoismo antico e sano di chi non sa nemmeno  che fa del bene a sé e all’umanità”, senza pietismi posticci, senza invidie sociali. E se siamo destinati a rimanere dei “gabbiani ipotetici”, pazienza. Sempre meglio che conformisti. 

(tratto da "Libero") - Aprile 2001

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