La gente di Dublino dice no all'Europa
di Alberto Mingardi

Buone notizie dall’Irlanda: il referendum sul Trattato di Nizza, votato giovedì scorso (in contemporanea con le elezioni inglesi), ha visto una schiacciante vittoria dei “no”. Il fronte del “sì” è riuscito ad imporsi in due circoscrizioni soltanto - contro le diciotto espugnate dagli antieuropeisti, che l’hanno spuntata col 53,87 % contro il 46,13.
“Ogni tanto i miracoli accadono”, è il commento di Anthony Coughlan, opinionista dell’ “Irish Times” e segretario del comitato anti-Nizza. “Questi voterebbero anche contro il Natale”, ha replicato stizzito il premier Bertie Ahern - nel tentativo estremo di stigmatizzare come signornò “ideologicamente imprensentabili” i suoi avversari.
Ma, ed è un dato che non si può sottovalutare, a Dublino s’è aperta una breccia: e suona maldestro il tentativo del ministro degli esteri irlandese, Brian Cowen, di minimizzare il problema. Cowen, esponente del partito laburista, ha spiegato ai partner europei che l’esito del voto sarebbe dovuto, da una parte, a una campagna di disinformazione orchestrata dagli antieuropeisti e, dall’altra, alla scarsa partecipazione popolare (34,8 %).
La campagna di disinformazione, chi lo nega?, c’è stata. Ma sotto la regia di quel governo di cui Cowen fa parte, che ha sistematicamente escluso gli euroscettici dai dibattiti televisivi, e contava su un plebiscito in virtù di campagna elettorale-lampo. Appena 21 giorni, dai quali ci si aspettava uscisse un’Irlanda rinvigorita nella propria eurofilia.
L’altissima percentuale di astenuti, poi, non è un pretesto per dichiarare nullo il risultato. In Inghilterra ha votato poco più del 50% della popolazione, e nessuno s’è azzardato a scrivere che quella di Blair sia, per questo, una vittoria dimezzata.
Quello irlandese, è un terremoto che avrà serie conseguenze su tutto il continente. Non a caso Jens-Peter Bonde, il leader degli euroscettici danesi (che hanno già detto “no” all’Euro), ha espresso viva soddisfazione per come sono andate le cose. Visto che un Paese membro non ha approvato Nizza, non sarà più possibile per ratificare il Trattato così com’è. 
Ci vorrebbe un brindisi:  il nucleo di questo documento, in soldoni, era la possibilità di passare dal principio dell’unanimità a quello (“democratico”) della maggioranza, nelle decisioni del Consiglio dei ministri Ue.
Non fatevi ingannare dalle apparenze, non è una questione meramente tecnica: accettando il principio maggioritario, sarebbe stato possibile creare, all’interno dell’Ue, coalizioni politiche che a loro volta avrebbero potuto imporre a tutti gli Stati membri un aumento della spesa pubblica e, quindi, della pressione fiscale a vantaggio di determinate categorie di loro interesse. L’idea del Trattato di Nizza, non a caso, prese corpo durante il cosiddetto “caso Haider”: quando il governo austriaco minacciava, neanche troppo velatamente, di far saltare gli equilibri europei facendo ricorso sempre e comunque al diritto di veto, nel caso in cui le sanzioni non fossero state revocate.
E’ ovvio che l’approvazione del Trattato significherebbe un netta diminuzione del valore della sovranità degli Stati membri - a favore delle istituzioni comunitarie. Il “no” irlandese contribuisce sicuramente a smorzare gli entusiasmi dei professionisti dell’europeismo - e rappresenta una chiara battuta d’arresto nella costruzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Europee prossima ventura. Ironia della sorte: Blair, in Inghilterra, forte della vittoria di giovedì promette di portare il Paese nell’Euro. Sembra che, per una volta, inglesi e irlandesi si siano scambiati le parti.

Tratto da Libero-Opinioni Nuove

Cinquecentomila irlandesi mettono in crisi l’Europa
di Pierluigi Mennitti

Poco più di 500mila irlandesi hanno messo, la scorsa settimana, il bastone fra le ruote del trattato di Nizza che prevede le fasi dell’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Est. Un bastone che difficilmente farà deragliare il macchinoso processo di Bruxelles ma che rappresenta il primo tentativo dell’opinione pubblica continentale di esprimersi sulle mosse dei politici. Gli irlandesi sono stati chianmati a dire la loro sul trattato attraverso un referendum. Hanno votato in pochissimi, il 30 per cento degli aventi diritto: 46 per cento a favore, 54 contro. Un segnale grave e allo stesso tempo coraggioso, al quale i ministri degli Esteri dei Quindici, riuniti a Lussemburgo qualche giorno dopo, hanno contrapposto un’alzata di spalle: “Siamo rammaricati per il voto irlandese ma con tutto il rispetto per gli elettori il trattato di Nizza sull’allargamento non sarà rinegoziato”. L’Unione Europea troverà il modo di permettere all’Irlanda di tornare alle urne, con la speranza che una propaganda più accurata possa ribaltare l’esito di una settimana fa. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri irlandese ha assicurato che l’appoggio di Dublino all’allargamento non è in discussione e che quanto accaduto “non costituirà un freno ai negoziati”.

Resta il significato di questo rifiuto. I dirigenti di Bruxelles provano a gettare acqua sul fuoco e giustificano lo smacco rilevando come nel voto irlandese abbiano pesato una somma di minoranze: il timore di perdere i sussidi a vantaggio dei nuovi membri, il generico disincanto verso le vicende dell’Unione troppo spesso decise all’interno di una burocrazia verticistica. Il quotidiano Irish Times dà corpo alla prima ipotesi, accusando gli irlandesi di essere diventati “spilorci” e di voler rifiutare ai popoli dell’Est quei benefici cui Dublino ha attinto per molti anni. Un europeismo di convenienza, insomma, che ha unito gli irlandesi finché dall’Europa sono arrivati soldi a palate e che evapora nel momento in cui si tratta di assumere responsabilità diverse.

Ma nelle stanze più riservate della Commissione europea non ci si nasconde la seconda ipotesi, quella di un rifiuto del modo in cui l’Europa decide il proprio futuro. Il presidente Romano Prodi lamenta che “le nostre decisioni sono spesso il frutto di astrusi negoziati notturni, dai quali i comuni cittadini sono lontani”. Bisogna coinvolgerli di più. Ma i mezzi per superare quello che lo studioso Marquand definì il deficit democratico dell’Unione Europea non si capisce bene quali siano. E il rifiuto di prendere in considerazione il responso delle urne irlandesi rischia di accentuare la sensazione di tale distacco tra cittadini e politica europea. Molti dirigenti rivelano che se si votasse negli altri paesi un referendum simile a quello di Dublino, probabilmente, i risultati non sarebbero troppo dissimili. Il trattato di Nizza è poco noto: ai cittadini è rimasto l’amaro ricordo dei litigi e la sensazione di un compromesso oscuro. Senza una svolta decisa l’intero processo di allargamento (che non sarà indolore per i paesi attualmente membri dell’Ue) rischia di rallentare e di arenarsi. Era l’impegno solenne per ricongiungere il Vecchio Continente all’indomani della fine della Guerra Fredda. E’ un delitto ridurlo a una serie di meccanismi burocratici estranei alla passione degli europei.

Tratto da Ideazione.com

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