L'Europa degli euroscettici

di Carlo Lottieri

Sono ormai molti, in Europa, gli uomini politici apertamente contrari al progetto di unificazione che vorrebbe dissolvere le istituzionali nazionali per dare vita ad un Super-Stato. È sufficiente prestare attenzione a ciò che sta avvenendo in Francia per constatare come l'Europa in costruzione sia avversata non solo dall'estrema destra lepenista o dall'estrema sinistra no global, ma anche da un gollista (già ministro degli Interni) come Jacques Pasqua e da un socialista come Pierre Chevènement. E se di fronte allo svizzero Christopher Blocher l'Europa non gode di buona stampa perché troppo socialista, in Danimarca la moneta comune è stata rigettata in primo luogo per la mobilitazione di movimenti di sinistra timorosi di assistere ad una riduzione dello Stato sociale.

Non esiste, allora, alcuna omogeneità di posizioni tra le formazioni politiche anti-europeiste.

Se però si abbandona il terreno dei partiti e ci si sposta, piuttosto, in quello dei dibattiti teorici e culturali, in tal caso è legittimo affermare che il panorama euroscettico è popolato per lo più da conservatori, liberali classici e libertari. E se non vi è certo unanimità di posizioni tra quanti intendono avversare quel Leviatano che sta per insediarsi a Bruxelles, è pur vero che una comune impostazione liberale finisce, in definitiva, per prevalere su ogni altra cosa.

L'area in cui la "resistenza" ai nuovi poteri continentali risulta maggiormente consolidata è, senza dubbio, quella britannica. Attorno ad un'organizzazione conservatrice come la European Foundation (che pubblica The European Journal) gravitano studiosi di valore come Kenneth Minogue, Norman Barry, Russell Lewis e anche quel Frederick Forsyth notissimo anche da noi quale autore di romanzi di spionaggio. Ugualmente impegnato in questa battaglia è pure Lord William Rees-Mogg, già direttore del Times a fine anni Settanta e approdato, negli anni scorsi, al liberalismo libertario con un volume di successo (The Sovereign Individual, pubblicato da Simon & Schuster nel 1996).

Un altro euroscettico britannico piuttosto noto è Bernard Connolly, qualche tempo fa sulle pagine di tutti i giornali perché licenziato dalla Commissione Europea proprio a causa delle sue opinioni politiche e, nello specifico, per avere scritto un libro (The Rotten Hearth of Europe) che denuncia i vizi intrinseci del processo di unificazione. Questi inglesi sono tutti, a loro modo, eredi del thatcherismo e quindi persuasi - come disse a Bruges proprio la Dama di Ferro - che "tentare di sopprimere le nazionalità e concentrare il potere al centro di un conglomerato europeo sarebbe estremamente dannoso": innanzi tutto per le libertà individuali.

Ugualmente importante è quel gruppo di intellettuali da cui è nata l'associazione Global Britain, a cui dà il proprio contributo una delle maggiori figure del liberalismo classico inglese, Lord Harris of High Cross (che alcuni decenni fa fondò l'Institute of Economic Affairs di Londra e pose le premesse per la rivoluzione anti-statalista degli anni Ottanta).

Si tratta di personalità diverse, non c'è dubbio, ma accomunate dalla volontà di valorizzare l'autonomia dei singoli, il mercato, la proprietà privata. E se nella lotta al centralismo europeo alcuni di questi intellettuali insistono sul tema della sovranità nazionale, è pur vero che spesso tale loro affezione all'identità britannica nasce dalla consapevolezza che sotto la Union Jack lo statalismo socialista si sia insediato solo tardivamente e in forme comunque più imperfette. Al di là della Manica, non a torto, si continua a temere la cultura continentale e, in particolare, quell'infezione giacobina capace di minare le antiche libertà britanniche o ciò che di esse ancora sopravvive.

Va pure precisato, però, che i maggiori studiosi che contestano il processo di unificazione europea non sono affatto inglesi.

Dalla Germania, in particolare, provengono nemici dichiarati dell'Europa e studiosi di assoluto valore come l'epistemologo popperiano Gerard Radnitzsky (che sul piano politico abbraccia il libertarismo più intransigente) ed il filosofo-economista Hans-Hermann Hoppe, già allievo di Habermas e soprattutto di Rothbard, che riconobbe in lui il migliore prosecutore dei suoi studi.

È interessante notare come questi intellettuali siano contrari all'unificazione politica europea proprio perché liberali. A loro non importa tanto che l'Unione minacci la "sovranità" delle istituzioni nazionali: la loro tesi, semmai, è che Bruxelles si appresta ad essere la base d'appoggio di un nuovo ed immenso potere a vocazione totalitaria, ancor più lontano dai cittadini ed ancor più dispotico, centralizzato, pervasivo. Il dispotismo attuale degli Stati nazionali, insomma, è destinato ad essere amplificato dalla creazione di un potere di taglia continentale.

Per Hoppe e Radnitzsky è quindi necessario difendere la concorrenza tra istituzioni. Per avere più libertà, infatti, bisogna che le classi politiche siano poste in competizione tra loro; ma perché in un'area come l'Europa ciò sia possibile dobbiamo avere numerosi governi, ben distinti, indipendenti e quindi costretti a rivaleggiare. Se oggi in Germania le tasse vengono innalzate, i capitali e le imprese possono dunque spostarsi in Austria o in Italia, in Francia o in Ungheria; allo stesso modo, se la Francia adotta le 35 ore obbligatorie per legge, qualche azienda si trasferirà in Olanda, in Spagna o in Belgio.

L'Europa medievale, di cui siamo fortunati quanto ingrati eredi, è stata all'origine del grande successo dell'Occidente perché entro quel mondo non riuscì ad imporsi un potere imperiale in condizione di tenere tutto il suo controllo. In altri termini, l'Europa non divenne mai la Cina e per questo motivo ebbe la meglio su ogni altra civiltà.

Significativo, a tale riguardo, è che nella Svizzera federale numerosi ricercatori siano persuasi che una struttura istituzionale come quella elvetica non possa sopravvivere entro l'Europa centralizzata che sta per vedere la luce, incapace di rispettare il diritto all'autogoverno e la specificità delle molteplici realtà. Questo spiega pure perché lo zurighese Liberales Institut di Robert Nef esprima giudizi molto netti nei riguardi dell'Europa attuale e della sua vocazione statalista, così come fanno due prestigiosi economisti di quel paese: Bruno Frey e Victoria Curzon-Price.

Per gli studiosi liberali e libertari, in effetti, è solo grazie all'esistenza di una pluralità di ordini del tutto autonomi che, fino ad oggi, si è riusciti a porre un limite alla voracità delle classi politiche che ci governano. Ma è esattamente per tale ragione che gli uomini politici dei vari paesi europei stanno oggi costruendo un "cartello monopolistico", l'Unione, che in questo modo ponga fine ad ogni concorrenza. In tal senso, il processo di unificazione va visto come il tentativo della classe politica europea di difendere la propria vocazione socialista dinanzi ai cambiamenti in atto e, in particolare, di fronte a quella globalizzazione in virtù della quale risorse ed aziende si collocano dove la tassazione è più mite, la regolamentazione più modesta e minore, quindi, è il peso dello statalismo.

Perfino fuori dall'Europa dei quindici, ad ogni modo, c'è già chi inizia a ribellarsi dinanzi al Nuovo Impero in costruzione. A Praga, così, nel Liberalni Institut è attivo Josef Sima, molto critico con quanti stanno favorendo l'ingresso della Repubblica Ceca all'interno dell'Unione. Ed un atteggiamento analogamente negativo verso il processo in atto, che prima o poi porterà la Romania sulla medesima strada, si ritrova negli scritti dell'ottimo Christian Comanescu (responsabile del Mises Institute di Bucarest) e di altri liberali dell'Europa centro-orientale.

Nemmeno in quella Francia sospesa tra lo sciovinismo più ottuso e l'europeismo più acritico mancano importanti voci liberali, che si sforzano di segnalare i rischi della situazione in cui ci troviamo. Economisti innamorati dei diritti individuali come Gérard Bramoullé, Jean-Pierre Centi, Jacques Garello, Bertrand Lemennicier e Pascal Salin - anche grazie a quell'ottima rivista che è il Journal des Économistes et des Études Humaines - da anni indicano ai loro concittadini come l'alternativa non sia tra un nazionalismo patriottardo ed un preteso internazionalismo europeista, dato che proprio il processo di "armonizzazione" forzata della società europea comporta la cancellazione delle libertà individuali e delle diversità (sociali, tradizionali, culturali).

Dall'Ungheria, anche se da decenni è attivo tra Francia e Gran Bretagna, viene invece Anthony de Jasay, autore di uno dei maggiori testi di teoria politica del Novecento, The State. Ma in questa "internazionale liberale dell'euroscetticismo" figura pure un nome piuttosto noto pure al grande pubblico: Vladimir Bukovskij. Dopo aver a lungo patito i rigori del regime sovietico, da tempo lo scrittore russo vive in Gran Bretagna e non perde occasione per sottolineare come la presunta ineluttabilità del processo di unificazione europea possa condurre ad una sorta di Unione delle Repubbliche Socialiste Europee: repressiva, intollerante, impicciona, guidata da politici e burocrati del tutto privi di controlli ed alternative.

Perché questo è il punto: un'unificazione nemica del pluralismo istituzionale e pianificata dall'altro, introdotta da una moneta imposta d'imperio, concretizzata da una sfilza di direttive e decisioni arbitrarie (si pensi, ad esempio, all'operato di Mario Monti in tema di concorrenza), "costruita" in laboratorio da un minuscolo cenacolo di professionisti della politica riuniti in conclave per redigere una nuova Costituzione è, senza dubbio, qualcosa di posticcio, fittizio, del tutto artificiale. Molte cose uniscono gli europei e tale loro comunanza può certo crescere nei prossimi anni, ma non si vede perché tutto questo debba essere il frutto di un'azione coercitiva che consegna più di trecento milioni di individui ad una ristretta élite tecnocratica.

Per Hoppe, de Jasay, Radnitsky e Salin (i cui scritti "anti-europei" stanno per essere raccolti in un volume delle edizioni Leonardo Facco, in cui compaiono anche alcuni saggi di Sergio Ricossa, Enrico Colombatto e Alessandro Vitale) l'Europa deve insomma cercare un'altra strada: più fedele alle proprie tradizioni e maggiormente rispettosa della pluralità delle sue voci ed identità. Come ha scritto l'inglese Chris Tame della Libertarian Alliance, d'altra parte, "se esiste qualcosa che differenzia la civiltà europea dalle altre civiltà, storiche o contemporanee, è proprio l'ideale (anche se non la pratica) della libertà e della diversità". Ed in queste parole riecheggia pure una nota espressione di un grande liberale dei decenni scorsi, Wilhelm Roepke, secondo cui "la decentralizzazione è l'essenza dello spirito europeo".

tratto da Il Giornale

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