Oltre lo stato-nazione: l'Europa delle Regioni
di Gianfranco Miglio

Dalla politologia ufficiale italiana sono sempre stato considerato una figura intellettualmente eccentrica. In effetti la visione che ho sempre avuto della scienza della politica è stata scomoda e poco tradizionale, frutto di un percorso intellettuale piuttosto originale e poco consueto nel contesto culturale italiano. Con i politologi italiani ho avuto rapporti di stima personale ed accademica, ma scarsi punti di contatto scientifico. Norberto Bobbio, ad esempio, per i miei gusti inclina troppo alla filosofia. Bobbio non mi ha mai perdonato la pubblicazione delle Categorie del politico di Schmitt: "Hai destabilizzato la sinistra italiana", mi ha detto una volta. Chi conosco molto bene è Giovanni Sartori, anche lui arrivato alla scienza politica dalla filosofia, in particolare da quella crociana. Di Sartori e della sua scuola non condivido poi l'approccio comparativistico, talmente esasperato da risolversi in un formalismo. Di ogni singola proposta di cambiamento istituzionale non si può andare a cercare, tutte le volte, il corrispettivo negli altri paesi, quasi esistesse uno standard politico-istituzionale al quale tutti, più o meno, debbano attenersi. Chi - come me - pensa che, in una fase storica come l'attuale, ci si debba sforzare di inventare nuove istituzioni e nuovi modelli politici non può accettare la trappola mentale della politica comparata (...) 

Stiamo assistendo - piaccia o meno - alla fine di tutto un mondo politico, quello dello Jus Publicum Europaeum, del diritto pubblico europeo cinque-seicentesco, nato dopo la pace di Westfalia (seppur le sue premesse siano state poste prima) e che per quattro secoli ha dato un'impronta fortissima al sistema delle relazioni internazionali. Declineranno, una dopo l'altra, tutte le grandi strutture istituzionali che hanno caratterizzato, nel corso dei secoli, il nostro paesaggio politico. Ad esempio il parlamento su base nazionale, non solo strutturalmente incapace di produrre decisioni, ma ormai continuamente scavalcato, sulle questioni politicamente ed economicamente più importanti da organismi che agiscono al di fuori della struttura parlamentare. Con i parlamenti e le loro mischie interne verrà meno la classe dei parlamentari, queste figure ottocentesche, un po' noiose e arroganti, che abbiamo sempre immaginato, obbedendo a una certa oleografia, come i protagonisti assoluti e necessari di ogni politica. I grandi partiti di massa, dal canto loro, sono già un ricordo, sostituiti oramai da aggregazioni di interessi nelle quali non conta più l'ideologia, ma il carisma dei capi e l'uso scientifico della propaganda.

Cambiando i partiti, cambia anche il meccanismo della rappresentanza. Così come è destinato a mutare il significato sin qui attribuito alla Costituzione. La politica ha oggi assunto una dimensione pienamente mondana e secolare: come può dunque concepirsi un atto politico, come appunto la Costituzione, avvolto da un'aura quasi sacrale e religiosa, giudicato intoccabile, un sistema chiuso di norme che una volta posto è destinato a vincolare la vita di tutte le generazioni a venire? In realtà, ogni generazione dovrebbe poter scrivere la propria Costituzione, fissare autonomamente le regole della convivenza politica secondo le proprie esigenze e necessità. Al posto della Costituzione - intesa come tavola di valori, come struttura organica e completa, immodificabile nei princìpi - in futuro avremo probabilmente raccolte di "leggi particolari", ognuna delle quali mirata verso problemi ed aspetti specifici della vita collettiva e finalizzata a risolvere i problemi, per definizione sempre diversi, di una comunità; non più quindi la Costituzione cui ci ha abituati il diritto pubblico europeo soprattutto ottocentesco, la Costituzione depositaria della maiestas di un intero popolo, ma uno strumento molto più flessibile e dinamico.

Un altro concetto tipicamente legato all'esperienza dello stato nazionale è quello di "confine", anch'esso destinato, stante l'attuale evoluzione dell'economia e della tecnica, a divenire un anacronismo politico-giuridico, tutto l'opposto di quello che ci hanno insegnato i maestri di diritto pubblico. Quella di fissare confini rigidi e immutabili e di farli rispettare con la forza è una vecchia mania della politica dell'età dello stato moderno. Qualcuno pensa ancora che basti un confine per difendere le identità. Economicamente e tecnologicamente i confini già non esistono più: permangono solo come espressione simbolica - politica e militare a un tempo - di un mondo che sta per finire. Le aree di frontiera sono sempre più spazi di scambio e di cooperazione, mentre anche l'Europa comunitaria non fa che appoggiarsi sulle ossessioni statuali del confine "esterno", che continua a spaccare in due l'Europa e divenute dottrina giuridica a partire dai giuristi del diciassettesimo secolo.

Alla base di questi cambiamenti irreversibili - per i quali forse non siamo ancora mentalmente attrezzati - c'è ovviamente un dato materiale fino a qualche anno fa imprevedibile nei suoi effetti: la rivoluzione tecnologica, peraltro continua ed incessante. Cosa determina la tecnologia per l'evoluzione dello stato? Due cambiamenti che per il fatto di intaccarne la matrice originaria finiscono anche per determinarne il deperimento e quindi la scomparsa dalla scena politica. I due cambiamenti principali sono: 1) l'impossibilità, oggi, di fare la guerra 2) la scomparsa della classe dei burocrati e dei funzionari dello stato, cioè della struttura amministrativa tradizionale. (...)
Quanto alle pletoriche burocrazie statali, alle decine di migliaia di funzionari di ogni livello che rappresentano lo stato nel territorio, che simbolicamente ne esprimono la ramificazione e la pervasività, con la loro crescita abnorme e inarrestabile, soprattutto nei paesi ultracentralizzati come rimane l'Italia, a renderle sempre più superflue sarà il procedere incalzante dei processi di automazione, che renderà sempre più inutile ed economicamente controproducente qualsiasi mediazione tra cittadini e sfera della decisione politica. I titolari di cariche pubbliche (e di rendite politiche, non di mercato) faranno una fatica d'inferno a giustificare, a legittimare le paghe pubbliche. La macchina - che sostituisce il funzionario - renderà davvero impersonale il potere pubblico ma anche, paradossalmente, meno lontano dalla partecipazione dei cittadini. Naturalmente non bisogna nascondersi i risvolti sociali di questo processo: che fine faranno le migliaia di persone che vivono grazie ai servizi che lo stato ha ascritto al suo monopolio, oggi sempre meno giustificabile?

Ho dedicato molta attenzione alle vicende peculiari dello stato italiano, dall'unità in avanti. Quando mi sono convinto che il nostro modello statuale, entrato della sua fase parlamentare integrale, rischiava di perdere di funzionalità e di efficienza, ho perseguito con impegno un obiettivo riformistico, come dimostra l'esperienza del Gruppo di Milano, da me diretto (1983) che prevedeva una profonda revisione del nostro assetto costituzionale in un senso che all'epoca fu definito "decisionistico". Quel progetto era ancora interno alla logica dello stato unitario ed accentratore. Con la fine del comunismo, con l'inizio a tutti gli effetti di una nuova epoca storica, mi sono reso conto dei limiti di quell'approccio riformistico. Ho così cambiato radicalmente visione, riprendendo la proposta (rifiutata dai miei collaboratori) che allora già feci in quella sede, abbandonando qualsiasi compromesso con la prospettiva fallimentare dello stato unitario e abbracciando definitivamente - non per una scelta valoriale, ci tengo a precisarlo, ma per ragioni scientifiche - la soluzione federale, alla quale ho dedicato tutte le mie energie nel corso degli ultimi dieci-quindici anni. Si è trattato di un impegno lungo, dal quale però, nonostante il tanto parlare che si è fatto in questi anni di federalismo, non è ancora scaturito un reale cambiamento. Bisogna dire però che la riforma che ha portato all'elezione diretta dei "governatori" nelle diverse regioni italiane ha una carica rivoluzionaria molto maggiore di quanto si immagini. L'ho anche detto ad Amato quando era ministro nel governo D'Alema: "Voi nemmeno vi rendete conto di cosa significhi questa innovazione". La nascita dei "governatori" ha contribuito a rianimare personalità politiche molto forti e con una forte legittimazione, destinate a contare sempre più sulla scena politica nazionale. Ma il vero punto di trasformazione sarà rappresentato dalla redazione e dalla successiva applicazione degli Statuti regionali (che non potranno essere omogenei). Prevedo contrasti crescenti con l'amministrazione centrale dello stato, naturalmente ben intenzionata a difendere i propri poteri e i propri privilegi.

Nella nuova legislatura le Regioni saranno il vero motore del cambiamento istituzionale, tanto più che ci siamo avvicinati alla scadenza elettorale senza che si sia prodotta una seria e profonda modifica della macchina pubblica. Mi chiedo come reagirà il ceto degli alti funzionari di stato - intendo i prefetti, i questori, i direttori generali dei ministeri - a un processo che tenderà a togliere loro poteri crescenti. Dopo gli Statuti (che non dovranno somigliarsi troppo l'uno con l'altro, ma dovranno invece rispecchiare le differenze tra territori ed evitare la trappola dell'omogeneità), il passo successivo, in una logica di reale autonomia politica ed istituzionale, sarà l'accorpamento delle attuali Regioni secondo macro-aree omogenee dal punto di vista economico-territoriale. Un passaggio inevitabile, perché le attuali Regioni, artificiali e inventate a tavolino nell'Ottocento, non possono trasformare in senso federale il paese. A quel punto, con la nascita delle "macroregioni" organizzate in Cantoni, si saranno create le condizioni istituzionali per la realizzazione di una reale struttura federale, per la definizione di un assetto politico-costituzionale di tipo embrionalmente post-statuale.

10 aprile 2001

(estratto da Ideazione 2-2001, marzo aprile)

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