L'appello di Giovanni Paolo II

 

L'invito del Papa alla disobbedienza, di Alberto Mingardi

Il richiamo del Papa all’indissolubilità del matrimonio, di Maria Claudia Ferragni

Dare al Papa ciò che è del Papa, ma..., di Roberta Tatafiore

Libera Chiesa in libero mercato, di Marco Faraci

 

 

L'invito del Papa alla disobbedienza

Che peccato. Che peccato che la parole del Papa sul divorzio, questo messaggio dirompente, questo rivoluzionario ricordarci che per amore di giustizia alla legge ogni tanto si deve disobbedire, non siano riuscite a penetrare il muro di gomma dell’opinione pubblica. Che peccato che non si abbia neppure avuto il tempo di incominciare una discussione seria che, fra scomuniche incrociate e imbarazzati “no comment”, le prime pagine dei giornali avevano già cominciato a parlar d’altro.

Colpa, forse, di certe reazioni a caldo. Comprensibile l’alzata di scudi degli avvocati, categoria che vive nel culto della legge formalizzata e positiva, e se ne infischia (è il suo lavoro) di quali siano i suoi contenuti. Le norme sono “giuste” perché escono dal Parlamento, al di là di quel che dicono: è questa l’eredità più vergognosa della rivoluzione francese.

Bizzarra è stata invece la reazione della Cei, che ha giocato al pompiere con il pensiero del Santo Padre: lui appicca il dibattito, i vescovi gettano acqua sul fuoco e si affrettano a confermare stima e obbedienza alle istituzioni dello Stato.

Altrettanto sorprenderente la risposta dell’opinione pubblica, con sondaggi su sondaggi pronti a testimoniare l’incrollabile fede degli italiani nell’istituto del divorzio, più che in quello del matrimonio. Pare che i cittadini abbiano inteso il discorso di Giovanni Paolo II come una predica contro le unioni civili, e abbiano voluto riaffermare il loro diritto a una convivenza fra uomini e donne basata su regole diverse da quelle del matrimonio religioso.

Ma allora, scusatemi, delle parole del Papa si è capito poco o nulla. E, come al solito, nel gioco delle parti tra “laici” e “cattolici” si è smarrito il senso più profondo,  autentico, di questa presa di posizione. Un messaggio che avrebbe potuto squarciare la coltre di superficialità dei media, e invece è stato ridotto a mera provocazione giornalista. La provocazione giornalistica la faccio io: sono proprio i liberali (a dispetto di certe categorie precotte) coloro che dovrebbero farsi portatori di questa battaglia, battendo coraggiosamente la strada tracciata dal Santo Padre.

Questo per due motivi. Il primo è che il Papa non ha chiesto una nuova legge contro il divorzio, come qualche tempo fa non chiese una legge contro la pillola abortiva. Ha fatto appello alla coscienza allora dei farmacisti, oggi degli avvocati e dei giudici. In un mondo che vorrebbe una legge per tutto (dal diametro dei piselli alla lunghezza delle zucchine), Giovanni Paolo II ha detto che non c’è Parlamento che possa obbligarci a fare qualcosa che riteniamo ingiusto. Che viene prima il nostro cuore dell’obbedienza obbligatoria a una norma che prende a pesci in faccia i nostri principi.

Del resto, non è stato Gesù Cristo la più straordinaria figura di “disertore” della storia? Non è stato, il figlio di Dio, ucciso dal Potere per averne denunciato la natura inevitabilmente umana, e dunque fallibile, e dunque spesso criminale e infima rispetto a una legge più alta, scritta nelle stelle?

La seconda ragione è più schiettamente giuridica. Per la tradizione del liberalismo classico, ordinamenti come quelli familiari sono anteriori al potere civile – e non debbono a Cesare la loro legittimità, ma all’essere in qualche modo espressione della natura umana e della storia. Antonio Rosmini Serbati parlava da liberale prima ancora che da cattolico scrivendo che “la società civile è al servizio di quella domestica (la famiglia), e non viceversa”.

Compito delle leggi e dei governi è solo quello “di levare gli ostacoli e di disporre con previdente senno quelle circostanze che riescano più favorevoli, acciocchè la società aumenti, fruisca i beni e i diritti suoi propri”.

La tradizione che vede la società come filiazione diretta, e strumento del Potere, è un’altra: “lo Stato non è affatto separato dalla società civile da una muraglia cinese: l’uno trapassa nell’altra e le innumerevoli organizzazioni della società civile sono organi periferici dello Stato” , spiegava Bucharin. E siamo all’insopportabile ossimoro comunista di una “società civile statale”.

Non si può che rimanere a bocca aperta innanzi alla lungimiranza, alla preveggenza di Rosmini. Né l'unione né la separazione, pensava, possono essere oggetto di legge civile: “se fosse in potere del governo civile unire gli sposi, sarebbe anche in suo potere per la stessa ragione il separarli; e il matrimonio sarebbe solubile”.

E’ esattamente quello che è accaduto, per la concomitante miopia di cattolici e laici. I primi si sono arresi di fronte allo Stato. Hanno rinunciato all’idea che la Chiesa potesse avere una vera autonomia giuridica, che la Chiesa potesse produrre “diritto”, e hanno abbassato le armi davanti all’arroganza della legge scritta (e non ricercata, scoperta, sublimata) dal Principe e dal Parlamento.

I secondi hanno dimostrato di non avere immaginazione, e hanno copiato regole e formule del matrimonio religioso, pensando potessero avere valore anche al di fuori di quel contesto. Ma è pura pazzia: una promessa come “finché morte non ci separi” ha senso soltanto in quanto corollario di un credo più vasto, nell’aspettativa di una vita oltre la morte, in una precisa cornice morale e di fede.

E’ una promessa che si può fare, col cuore gonfio di speranza e d’amore, solo davanti a un ministro di Dio: ed è Dio l’unico che può accettarla, dandole validità e forza, essendo Egli l’unico a poter disporre della durata della nostra vita. Non si possono pronunciare quelle parole innanzi a un sindaco senza cadere, automaticamente, nel ridicolo.

Ai laici è mancata immaginazione giuridica. Fuori dalla Chiesa, la convivenza fra due persone dovrebbe essere regolata soltanto dalla loro volontà e da contratti liberi e privati. Nell’ambito dei quali vi possono essere clausole relative alle varie situazioni possibili, all’assetto economico della coppia (comunione dei beni oppure no), al pegno da pagare in caso di patatrac della convivenza, persino alla sua durata (stiamo assieme cinque anni, sei, dodici, ventotto...).

Strappare il matrimonio alle grinfie dello Stato vuol dire soprattutto questo: restituire dignità al sacramento, riconoscere la pluralità delle fonti del diritto, immaginare tipi di convivenza nuovi e più liberi. Che gli anticlericali non se ne accorgano ci ricorda una volta di più che “laico” non vuol dire “liberale”.

Alberto Mingardi

tratto da Libero

Il richiamo del Papa all’indissolubilità del matrimonio

Il recente richiamo del Papa alla sacralità e all'indissolubilità del vincolo matrimoniale che dà vita alla famiglia, la prima delle "istituzioni" civili e umane, è rivolto innanzitutto ai credenti, cattolici e non, anche professionisti del diritto, ma credenti. Quella di cui parla il Papa riferendosi a questi ultimi è una specie di obiezione di coscienza: l’avvocato è un libero professionista e pertanto può anche rifiutare di patrocinare una causa che non lo aggradi o che non condivida moralmente. In questo non c’è nulla di strano o di illegale. In quanto ai giudici, qualcuno di loro ha già risposto che sì, è vero che neanche la legge sul divorzio viene applicata correttamente, così come quella sull'aborto, perché il tentativo di conciliazione dei coniugi, espressamente previsto, si riduce solo a una formalità.

Detto ciò, credo che il richiamo del Papa suggerisca una riflessione anche per i non credenti, a maggior ragione se liberali: non pensano essi infatti che un’attenta considerazione sui tanti divorzi, talora realmente devastanti - soprattutto per i figli- sia necessaria? Non credono che il richiamo ai valori umani più profondi sia di conseguenza, sempre importante?

Soprattutto se pensiamo che, a differenza delle leggi dello Stato, quelle della Chiesa non obbligano nessuno coercitivamente: se non vengono rispettate, non c'è nessun Pubblico Ministero che inizi automaticamente un'azione penale o civile, tanto per intenderci; semmai non si ammette più il fedele ai Sacramenti, o non gli si concede l'annullamento del matrimonio religioso. Conseguenze gravi, ma riguardanti la coscienza individuale. Fatto del quale il cristiano deve essere/è ben consapevole, per esserne stato avvertito, e comunque perché sa che la vita è difficile, complessa e che oltre ai diritti, contempla molti doveri. Nei fatti, poi, la situazione del fedele varia di volta in volta: la Chiesa cattolica è sempre molto più misericordiosa di quanto non sembri ai laici. Ed è sempre pronta ad accogliere chiunque sia in difficoltà o sia alla ricerca del significato dell’esistenza.

Riguardo ai laici, veniamo alla loro strenua difesa del divorzio: alcuni divorzi sono doverosi, nessuno lo nega  - e nessuno vuole impedire che vi siano forme di unione alle quali si può consensualmente mettere termine , ma anche tantissimi non necessari e dettati spesso dal diffusissimo egoismo che regna sovrano nel mondo di oggi, ora anche fra le donne. Le quali sì, per anni e secoli hanno "subìto", ma sono anche il cuore della coppia e della famiglia  (senza nulla togliere al ruolo fondamentale dell'uomo e padre, che deve anch’esso riacquistare autorevolezza), in quanto più tendenti per natura alla comprensione e alla compassione, forse anche al sacrificio, dato che generano la vita e la allevano. Spesso per le donne di oggi è invece assai difficile ritrovare la parte più istintiva di sé, anche per loro è diventato arduo "rinunciare", venire incontro all'altro, con ulteriori, frequenti, grandi sofferenze.

L’esortazione del Papa può essere allora intesa come un richiamo alle coscienze di ognuno, credente o laico, uomo o donna, in un momento in cui la società vive una sorta disgregazione che è sotto gli occhi di tutti. Il Papa ci ricorda  che in ogni famiglia si litiga, ci si azzuffa, poi ci si riconcilia e perdona, anche in quelle che sembrano esistere per una specie di alchimia miracolosa; in realtà le famiglie non si disgregano quando i coniugi si impegnano quotidianamente, senza mai gettare la spugna. Ma forse di questo ci siamo dimenticati, in nome della politically correctness personale.

Per cui è molto importante sentire finalmente qualcuno che di tanto in tanto ci incoraggia ed esorta a mettercela tutta per riuscire nei difficili compiti della vita: il Papa ci esorta paternamente a "migliorarci", ad essere responsabili, in un’epoca in cui l’infantilismo e il perdonismo la fanno da padrone, con la pericolosa e inumana (oltre che disumana) conseguenza di delegare le scelte più importanti della nostra vita ( e della nostra morte) alle istituzioni statali. Istituzioni che, ahimé,  hanno creato una loro personale “religione”, alla quale sembra sempre più difficile opporsi senza sentirsi tacciare di “intolleranza”, nella migliore delle ipotesi.

E' quanto il Papa ci vuole ricordare. Il Papa indica una via da seguire,  ma non costringe nessuno a farlo: libertà! Credo che il punto sia tutto qui.

Pertanto il suo intervento in difesa del matrimonio è pienamente legittimo.

 Maria Claudia Ferragni

Dare al Papa ciò che è del Papa, ma...

Dare al Papa ciò che è del Papa: sono d’accordo sia con Maria Claudia Ferragni sia con Alberto Mingardi che hanno difeso la legittimità dell’invito di Giovanni XXIII - contenuto nel discorso di inaugurazione dei tribunali ecclesiastici - all’ "obiezione di coscienza" degli avvocati divorzisti, cattolici in primo luogo, ma anche laici che non si piegano al dominio della religione civile versus quella cattolica. Nessuno come il Papa, oggi, sa mettere il dito nella piaga della sacralità laica che sta alla base del dominio statuale. Nessuno, nota Mingardi, sa rispondergli senza mostrare la pochezza del pensiero laico-liberale moderno e post moderno che, in materia di divorzio, invece di inventare, e propugnare, soluzioni per le convivenze civili alternative a quelle della Chiesa, ha imitato il matrimonio religioso consegnandolo allo Stato. In materia di divorzio è tutto molto chiaro: dallo Stato anti-divorzista allo Stato divorzista. Questo è stato il passaggio in tutti i paesi occidentali.

A proposito di coloro che nella storia italiana dell’Ottocento non volevano arrendersi all’ineluttabile, vorrei ricordare che c’è stata una donna, Anna Maria Mozzoni, femminista inizialmente mazziniana, che voleva dare vita alle unioni civili tra donne e uomini (allora non c’era ancora il coming out di gay e lesbiche) da sottoscriversi non già nei municipi, bensì negli studi notarili. Le sue parole stanno ferme nella storia, assai poco nota, del femminismo. I coevi socialisti Turati e Kulischoff, mai regolarmente sposati, nel loro carteggio parlano anche loro delle unioni civili private come soluzione per non interferire nella sfera religiosa chiedendo il divorzio. Poi sappiamo come è andata: dall’ "idea socialista" al socialismo realizzato abolendo la Chiesa e tutti gli altri culti religiosi il passo è stato breve. Con le conseguenze nefaste che sappiamo. Fine della chiosa.

Inizio del discorso, che vuole analizzare la seconda "esternazione" papale dopo quella sul divorzio, quella sulla tutela giuridica dell’embrione, pronunciata in occasione della Recita dell’Angelus nella Giornata della Vita, il 4 febbraio scorso. Il Papa ha chiesto che si producano leggi per la tutela dell’embrione. Sul significato di questa richiesta (non sulla sua legittimità, che è indubbia) vorrei spiegare perché essa mi appare gravida di conseguenze, perché il legiferare (come farebbero volentieri i cattolici), o il non legiferare (come farebbero volentieri i laici, tanto per usare le solite categorie) sulla vita e sulla morte, è qualcosa di diverso dall’aver legiferato (alla fine con l’acquiescenza della stessa Chiesa) sul divorzio. O su qualunque altra questione che attiene alla libertà individuale.

Ma prima di addentrarmi nel ragionamento, corre obbligo conoscere il testo della Recita. Ne estrapolo qui i tre munti, a mia scelta, più significativi. Ma rimando al sito del Vaticano (www.Vaticano.it) in cui il testo è disponibile.

Il Papa ha detto che:

  1. "Riconoscere [la vita] significa garantire ad ogni essere umano il diritto di svilupparsi secondo la propria potenzialità, assicurandone l’inviolabilità dal concepimento alla morte naturale."
  2. "Riconoscere il valore della vita comporta coerenti applicazioni sotto il profilo giuridico, specialmente a favore degli esseri umani che non sono in grado di difendersi da soli, quali i nascituri, i disabili psichici, i malati più gravi e terminali."

Inoltre ha affermato che

"Riguardo, in particolare, all’embrione umano, la scienza ha ormai dimostrato che si tratta di un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità. E’ pertanto logicamente esigibile che tale identità venga anche giuridicamente riconosciuta."

Non sono d’accordo con le affermazioni del Papa. In materia di tutela dell’embrione non è in gioco soltanto, come per il divorzio, un sacramento, che posso onorare o non onorare. E’ in gioco la concezione della vita, rispetto alla quale ritengo mio diritto inalienabile esprimere una concezione che onora la vita in un modo diverso da come la onora il Papa. Infatti: non sono in assoluto per l’inviolabilità dell’essere umano quando l’inviolabilità, e il diritto naturale alla vita, vengono "allargati" da un lato al momento del concepimento, dall’altro al momento della morte. Per quanto riguarda l’inizio-vita e il fine-vita, epigoni della propria vita consapevolmente vissuta, penso che il primo non possa essere difeso contro la madre, veicolo materiale e simbolico del nostro venire al mondo, il secondo non possa essere difeso contro il morituro, unico depositario della scelta sul proprio morire. Se la Chiesa vuol difendere la vita nella sua totale estensione e non vuole che si pratichino aborti o che si legiferi sull’eutanasia, può usare l’arma pacifica della persuasione. Se invece si appella alla legge, chi non è d’accordo può, anzi, deve contrastarlo, per rispetto della stessa Chiesa. Dove trionfa la legge la libertà di coscienza, d’opinione, di scelta, è mortificata.

Pertanto ritengo sbagliate, e incivili, le legge che regolano "aborto di stato", come quella italiana, e ho un certo sospetto verso quelle regolanti "l’eutanasia di stato", come quella olandese. Per l’aborto, al posto della legge attualmente vigente in Italia, l’ "invenzione" che proporrei per rispettare l’autonomia giuridica della Chiesa, e perché la Chiesa rispetti la mia, di individuo agente morale, è tanto semplice quanto lontana, in Italia, dall’essere presa sul serio, dibattuta, utilizzata per persuadere: depenalizzazione dell’aborto, interruzione della gravidanza eseguibile solo nei presidi medici o paramedici privati su mera richiesta della madre. Anche se essa é minorenne o incapace di intendere e di volere. L’interruzione di gravidanza non deve avere limiti di tempo, che vuol dire equiparazione tra aborto terapeutico e aborto volontario, senza interferenza del padre. Il che, ci tengo a dirlo, non vuol dire che io sia contraria al coinvolgimento dei padri nella decisione dell’aborto, questione di cui si discute molto oggi. Ma il coinvolgimento non deve essere obbligato. Marco Faraci, notoriamente impegnato nel lodevole "movimento mascolinista", mi ha recentemente inviato la sua "invenzione" che qui riporto perché la ritengo interessante: non si tratta della depenalizzazione che preferisco io, ma una legge pensata per essere introdotta nel diritto civile, che quindi ha comunque il pregio di sottrarre l’aborto alla legge penale. Scrive Faraci:

"La donna, che si sobbarca la gravidanza, dovrebbe avere diritto all'aborto
e, alla nascita, se non sposata dovrebbe avere diritto di prelazione sul
figlio.
Questo vuol dire che la donna avrebbe 3 opzioni:
- servirsi del diritto di prelazione ed acquisire completi diritti e doveri
parentali sul figlio. A quel punto la donna avrebbe il diritto esclusivo di
stare con il bambino ed il dovere esclusivo di mantenerlo.
- abbandonare il bambino; in questo caso il diritto di prelazione passa al
padre che se interessato lo può esercitare; se rinuncia anche padre il
diritto passa ad altri che vogliano adottare il bambino.
- negoziare la paternità dell'uomo. Questo vuol dire che l'uomo (che sia
interessato a farlo) potrebbe "acquistare" la metà della patria potestà
(diritto a stare con il bambino, ad educarlo) in cambio di una proporzionale
contribuzione la mantenimento del bambino.
Questo garantirebbe diritto di scelta alla donna (e la piena responsabilità
dovuta alla libera scelta che compie) senza allo stesso tempo imporre
all'uomo nessun obbligo che non sia stato esplicitamente accettato."
Anche per l’aiuto al suicidio e l’eutanasia vorrei per prima cosa la depenalizzazione, fin tanto che siano possibili senza l’aiuto dei medici che operano nelle strutture sanitarie pubbliche o private. Se il morituro si trova ricoverato lì, e non a casa propria, o in quella di parente, di un amico, dipende dalla decisione dei medici. Per questo una legge, sia pur minima, è indispensabile. Suicidio assistito ed eutanasia possono quindi essere compiuti nelle strutture sanitarie solo se c’è il testamento di vita del morituro, che egli sottoscrive per salvaguardarsi in caso, un giorno, sia incapace di intendere e di volere. Questo è il senso della legge olandese, che però non prevede alcun tipo di depenalizzazione.

A me sembra evidente che qualora l’iniziativa giuridica del Papa venisse accolta nel nostro ordinamento (ci sono due progetti di legge sulla tutela dell’embrione, una del centro destra e una del centro sinistra, proposti in sordina ma sempre più apertamente appoggiati, soprattutto dal centro-destra al governo) ciò non potrà non influenzare da un lato la rinuncia a consentire l’eutanasia, dall’altro ad intervenire sull’attuale legge per l’aborto, ma senza la minima intenzione di sottrarlo al controllo statale, né con l’obiettivo di rimettere l’aborto fuori legge, bensì utilizzando i presupposti della legge 194 per rendere più strette le sue maglie. Non ha certo "colpa" il Papa se questo dovesse accadere, ma certamente le sue parole spingono a rafforzare la liaison dangereuse tra Stato e Chiesa. Apprendo, da Alberto Mingardi, che già Thomas Jefferson non l’apprezzava. E i liberali e i libertarians di oggi che dicono? Vogliamo lasciare che la "vechia" contrapposizione tra Stato laico e Stato confessionale detenga ancora il monopolio del discorso?

Alla Recita dell’angelus opinionisti e politici non hanno quasi reagito. Hanno preferito nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Gli ambienti ecclesiastici, invece, non hanno minimizzato come hanno fatto per le "esternazioni" sul divorzio. Hanno annuito, sia pure con sobrietà. L’unica critica al Papa è venuta da Vittorio Messori, sul Corriere della sera del 4 febbraio scorso. Tutto da leggere (si trova su Internet). Messori mette in relazione sia il messaggio sul divorzio sia quello sulla tutela giuridica dell’embrione in rapporto con l’incontro inter religioso di Assisi, a fine gennaio, in cui il Papa ha pregato condividendo il Divino con esponenti di tutte le religioni. Messori ravvisa nell’incontro di Assisi il segno di una "fede debole" e nei due messaggi papali un segno di "morale forte". Credenti o non credenti, tutti dovrebbero temere quando la fede si indebolisce.

Infine analizzo il rapporto tra l’iniziativa giuridica del Papa e la libertà scientifica. Il Pontefice sostiene che la scienza ha ormai dimostrato che il frutto del concepimento è esso stesso un individuo. Le cose non stanno così, malgrado - grazie al progresso scientifico – sia dimostrata l’intenzione vitale dell’ovulo fecondato. Ma sul fatto se basti l’intenzione vitale della microscopica cellula perché tutti gli scienziati proclamino che detta cellula è un individuo, la questione è aperta. La stessa Chiesa, del resto ha lungamente discettato su quando l’anima viene infusa nel corpo. Secondo Tommaso D’Aquino, ciò avviene quando il corpo è sufficientemente formato. E ancora fino agli anni sessanta del ‘900 la dottrina della Chiesa era ferma a quella definizione. E’ dal decennio successivo che essa si pose la necessità di difendere vigorosamente la vita fin dal suo inizio con il "non uccidere" l’embrione (caduta della proibizione dell’aborto. primi esperimenti di fecondazioni artificiali), equiparandolo la persona, a individuo.

La disputa nella comunità scientifica è aperta, dicevo. Talvolta viene condotta in base ai dati scientifici appurati differentemente valutati e nominati, tal altra in base all’interpretazione etica dei medesimi. Attualmente tra scienza e legge è stato raggiunto una sorta di accordo per stabilire la data entro la quale l’embrione può essere manipolato: 14 giorni dopo il suo concepimento. Così consente la legge inglese, così quella statunitense. Ed anche quella spagnola. Con un particolare, introdotto da Bush jr.: lo Stato non finanzia le ricerche sull’embrione, ma i privati possono farle. E i privati, negli Stati Uniti, sono il nerbo forte del mercato, della circolazione dei beni, delle conoscenze, dei brevetti. L’industria genica, infatti, è il futuro e vive di sperimentazione sugli embrioni. Il suo sviluppo promette benefici all’umanità, procura profitti immediati alle aziende del settore, crea posti di lavoro, circolazione del sapere. Se gli Stati Uniti possono permettersi di essere all’avanguardia anche senza i finanziamenti pubblici, l’Europa ha una struttura economica che implica il supporto statale. L’Inghilterra incentiva progetti che si svolgono nelle strutture pubbliche per competere sul mercato, la Spagna lo fa con un progetto pubblico-privato, recentemente approvato, di dimensioni notevoli. L’Italia è bloccata. Già ora che non c’è una legge per la tutela giuridica dell’embrione. Se dovesse esserci la rassegnazione sarà totale. Come del resto denunciano coloro che hanno a cuore la libertà scientifica.

Dare al Papa ciò che è del Papa, va bene. Guardare oltre il presente, per progettare il futuro, da esseri umani liberi, pure. Ma il presente c’è. E comprende anche la critica al Papa.

Roberta Tatafiore

LIBERA CHIESA IN LIBERO MERCATO

Molte delle accuse tradizionalmente rivolte ai cattolici riguardano la loro bigotteria ed il loro moralismo. Si tratta di accuse che, tuttavia, a mio modo di vedere, non possono essere  considerate centrali da un liberale.

Infatti sono dell'opinione che il liberalismo si possa benissimo coniugare con le più rigorose concezioni morali. L'idea cristiana della virtù non è affatto in contrasto con i principi della libertà individuale. Storicamente molti tra i maggiori liberali sono stati cristiani e in non pochi casi cattolici.
Personalmente poi non trovo nulla di scandaloso nell'invito rivolto dal Papa agli avvocati divorzisti affinché non partecipino alle cause di divorzio. In fondo l'avvocato è un libero professionista che ha piena facoltà di scegliere in quale campi impegnarsi. Quindi se una persona di fede cattolica ritiene immorale il divorzio trovo del tutto normale che si astenga dal cercare di ottenere guadagni patrocinando cause di divorzio.

Io, ad esempio, condanno in base ai miei principi etici ed estetici il consumo di droga e pertanto non sceglierei mai di impegnarmi professionalmente nel commercio della marijuana, nemmeno nel caso che tale commercio fosse totalmente decriminalizzato.

Credo pertanto che non sia corretto impostare una critica alla Chiesa come critica alla "cultura" o ai "modelli" che essa propone.

Penso che alla Chiesa attuale i liberali debbano portare una sola critica, peraltro molto importante. I liberali devono condannare il fatto che la Chiesa si serva (o cerchi di servirsi) del potere politico per implementare la propria agenda sociale.

In primo luogo la Chiesa italiana si finanzia in misura significativa attraverso le tasse raccolte dallo Stato. La possibilità di scegliere di destinare il denaro ad altre attività mitiga solamente in parte questo fatto perché non ci è consentita l'opzione "tengo i soldi per me" e perché comunque non si vede come mai la Chiesa debba passare per raccogliere fondi attraverso il meccanismo statale del prelievo fiscale.

La Chiesa, inoltre, come del resto tanti altri gruppi di interesse, individua nella politica uno strumento per fare avanzare le proprie idee e l'impegno politico dei cattolici italiani, profondamente intrisi di statalismo, è stato per l'affermazione di alcuni valori cristiani attraverso il diritto positivo.
L'intervento della Chiesa in politica è molto forte, in particolare, su temi di notevole attualità quali la genetica e le nuove tecnologie riproduttive. La Chiesa fa pesantemente lobby affinché lo Stato proibisca attività pacifiche quali la ricerca in campo genetico o quali la maternità surrogata.

Parimenti il mondo cattolico da sempre opera pressioni sul mondo politico affinché siano messe in atto politiche assistenziali a favore delle famiglie eterosessuali, specie se numerose, a spese inevitabilmente di singles, omosessuali ed in parte di coppie tradizionali con un solo figlio. E' chiaro che ogni volta che lo Stato introduce tutele a favore di determinati gruppi, questo avviene necessariamente a danno di altri gruppi.

Spaventa anche l'ostilità nei confronti dell'economia libera manifestata da tanti gruppi cattolici "impegnati" e da tanti sacerdoti che si dicono "in prima linea". Non si parla più di capitalismo e comunismo come due materialismi speculari, ma si va anche oltre operando una netta scelta di campo per il secondo, all'interno di un calderone in cui possono convivere francescani e sindacalisti,  ecologisti e punkabbestia, tute bianche e pacifisti.

La critica al sistema capitalista di libero mercato è particolarmente sentita all'interno dell'associazionismo cattolico del nostro paese che in parte significativa si riconduce alle idee del cosiddetto cattolicesimo-democratico.  Del resto si tratta di quell'associazionismo cattolico che pochi giorni prima delle ultime elezioni dette ampia diffusione ad un manifesto “contro il modello Berlusconi" inteso come visione del mondo basata sul profitto, sul mercato e sull'individualismo più sfrenato.

Tali idee, sfortunatamente, non sono caratteristiche solamente di una certa "base militante" del cattolicesimo italiano ma sono fatte proprie dallo stesso Pontefice che nei suoi discorsi non manca mai di sottolineare l'egoismo dei paesi ricchi, di condannare l'ingiusta distribuzione delle ricchezze, di invocare un'accoglienza indiscriminata, di lanciare appelli agli Stati affinché "risolvano" il problema della fame del mondo.

Ci sono buone ragioni, inoltre, per pensare che le tendenze favorevoli alla redistribuzione globale della ricchezza si rafforzeranno ulteriormente nei prossimi anni, anche per effetto del progressivo spostarsi degli equilibri interni della Chiesa Cattolica a favore dell'America Latina e dell'Africa.

Un certo modo di affrontare i temi politici e sociali è oggi - come detto - probabilmente predominante sia nelle gerarchie che  nelle associazioni cattoliche. Tuttavia sarebbe ingiusto considerare ciò come "la" posizione cattolica. Come la posizione più consistente con gli insegnamenti della religione cattolica.

Anzi il cattolicesimo in quanto tale si fonda sui principi del libero arbitrio e della libertà individuale, principi che stanno anche alle fondamenta del pensiero liberale.

I cattolici che pretendono di imporre attraverso le leggi dello Stato determinati modelli dimostrano, in fondo, i fallimento della loro stessa predicazione. Dimostrano di essere i primi a non credere alla possibilità di persuadere gli uomini a comportarsi da buoni credenti. Dimostrano di non avere fiducia nell'uomo, quell'uomo che invece dovrebbe essere al centro della visione personalista del  cristianesimo.
E' importante inoltre sottolineare come la stessa virtù possa essere definita solamente in presenza di una libera scelta. La solidarietà può essere "virtuosa" solamente se è volontaria. La conseguenza di rendere obbligatori determinati comportamenti è quella di privare l'uomo della possibilità di "essere" morale.

La critica liberale nei confronti del cattolicesimo italiano non è pertanto una critica alla tradizione, al rigore od alla virtù (comunque definita), bensì una critica alle tendenze stataliste in esso presenti. Naturalmente vanno anche colti alcuni spunti positivi su alcuni temi quali ad esempio l'istruzione, ambito nel quale larghe fette del mondo cattolico hanno compreso quanto sia auspicabile una riduzione del ruolo del governo.

Concludo quest'articolo con una riflessione sul tema dell'aborto. Si tratta senz'altro di uno dei problemi più difficili. Credo che sia la posizione antiabortista e che quella abortista potrebbero essere difese sul piano teorico con serie argomentazioni liberali. Tuttavia credo anche che la prima avrebbe conseguenze pratiche inaccettabili e che quindi sia saggio postulare che l'aborto non è omicidio.

Trovo giusto che sia la madre a dovere valutare l’opportunità di dare la luce ad un figlio, valutando con accuratezza le implicazioni psicologiche, umane ed economiche della sua decisione. Penso che lo Stato non dovrebbe intervenire in questa delicata soluzione né incoraggiando l'aborto né incoraggiando la decisione opposta.

Mi trovo in disaccordo con l'introduzione di interventi economici da parte dello Stato a favore delle donne  sia perché indeboliscono il rapporto tra scelta e responsabilità, sia perché trovo molto pericolose le motivazioni con cui tali interventi sono giustificati.

Infatti secondo chi propugna la necessità di tali forme di assistenza, la scelta della donna in molti casi non può essere considerata libera in quanto sono le difficoltà economiche che obbligano la donna all’aborto. In pratica si  giunge a conclusioni apertamente socialiste riconoscendo il concetto di "coercizione economica", secondo cui le persone non sono realmente libere (e quindi non possono compiere scelte volontarie) se prima lo Stato non le libera dal bisogno.

Credo pertanto che la questione aborto debba essere inquadrata in termini di diritto della donna alla scelta e di piena assunzione da parte della donna delle responsabilità che le derivano da tale libera scelta.

Marco Faraci

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