La prostituzione è sesso più mercato: quale dei due vi dà più fastidio?

di Giorgio Bianco

 

“Il sesso nel quale sono coinvolte le prostitute è più onesto, aperto e decente che quello praticato dal presidente degli Stati Uniti”     (Wendy McElroy)

 

Non aveva probabilmente torto, Irene Pivetti, quando il 14 dicembre scorso, sul quotidiano telematico “il Nuovo” ha scritto che “contro il mestiere più antico del mondo nessuno la spunterà mai, perché ci sarà sempre offerta finché ci sarà domanda, e domanda ci sarà finché il testosterone vorrà fare la sua parte senza implicazioni sentimentali”. E ha ragione da vendere a dire che legalizzare la prostituzione “sarebbe come legalizzare lo spaccio della droga “ . 

E aveva ragione, contro le sue stesse intenzioni, in almeno tre sensi. Innanzitutto, perché droga e prostituzione hanno in comune il fatto di essere due fenomeni con i quali l’umanità convive da sempre. In secondo luogo, e contrariamente a ciò che lei stessa sembra ritenere, perché altrettanto analoghi sono gli effetti che il proibizionismo di Stato ha sortito in entrambi i casi, e che sono sotto gli occhi di tutti. In terzo luogo, perché non meno deprecabili sono l’idea di una “droga di Stato” o di una “prostituzione di Stato”.

Il proibizionismo, innanzitutto. Il suo fallimento, tanto di fronte allo spaccio di droga quanto alla prostituzione, è talmente palese che non c’è neppure bisogno di argomentarlo. Su questo, ci pare sufficiente osservare che il fallimento dei provvedimenti statali antiprostituzione, tanto che colpiscano il solo cliente, la sola prostituta, o entrambi, rispecchia il fallimento di ogni forma di proibizionismo che pretende di applicarsi a fenomeni per i quali, giustappunto, esiste una forte domanda sociale (droga, gioco d'azzardo, ecc.). Del resto, il proibizionismo sulla prostituzione non solo ha fallito, come dimostra il fatto che, a dispetto di maximulte ai clienti e tante altre trovate le nostre strade restano piene di prostitute, ma finisce per danneggiare quelle stesse donne i cui destini la retorica dei politicanti alla Pivetti sostiene di avere a cuore.

Un esempio tra tutti: la condizione di clandestinità in cui le prostitute sono respinte finisce per scoraggiarle dal rivolgersi alla polizia in caso di violenze. Dato che la denuncia viene da una "criminale", si deve supporre che la sua parola non sarà presa sul serio. La criminalizzazione della prostituzione e il suo relegamento ai margini della società finiscono poi per determinare un netto peggioramento delle condizioni di lavoro, per cui, anche in questo caso, la clandestinità finisce per mettere le lavoratrici (e i lavoratori) del sesso (prostitute, transessuali, ecc.) a diretto contatto con altre attività illegali .In molti casi, poi, le leggi antiprostituzione finiscono non solo per esercitare un'ulteriore forma di censura e di oppressione sulle donne, ma per esporle ulteriormente a violenze e soprusi: in molti paesi, le prostitute vengono schedate ed etichettate come tali, anche sui documenti di identità, e molti stati le rifiutano. Il tutto non solo si traduce in una inaccettabile restrizione della libertà di movimento, ma finisce per convincere le donne a rimanere nel silenzio, per evitare di essere marchiate.

Ma, accanto alle considerazioni di carattere utilitaristico, c’è un’altra ragione per rifiutare ogni forma di legislazione repressiva nei confronti della prostituzione, ed è che il proibizionismo, indipendentemente dai suoi risultati, è immorale. Ed è immorale non solo perché sortisce effetti peggiori dei mali che pretenderebbe di estirpare, ma perché, con buona pace della Pivetti, viola in più di un aspetto la libertà degli individui che vi sono coinvolti. Neppure la più repressiva e draconiana normativa antiprostituzione può infatti cancellare il fatto che l’esercizio della prostituzione, in sé e per sé, altro non è che un "crimine senza vittime", ossia, nella fattispecie, un libero scambio fra individui adulti e consenzienti, che non danneggia nessuno se non la sensibilità di qualche terzo che non è minimamente coinvolto nella transazione.

“Il punto – sostiene la Pivetti - è se io società, se io Stato posso dire ai miei cittadini che la prostituzione è un mestiere, e che quella è una vita come un'altra. E cioè non solo che, come tutti gli altri, è un lavoro che produce un reddito su cui si devono pagare le tasse, e dal quale avere ferie, liquidazione e pensione, ma che come ogni altro può avere una carriera, può dare gratificazioni, realizza la personalità, favorisce la socializzazione - è, in ultima analisi, un diritto e luogo di altri diritti.
E non si venga a dire che c'è chi lo sceglie: ammesso e non concesso - ma proprio non concesso - che vi sia una sola donna che, potendo fare altro, preferisca mettersi in affitto, la verità è che ormai la prostituzione non ha più niente a che vedere con le artigianali senorine della guerra o con le poche migliaia di praticanti che l'onorevole Merlin vedeva ai suoi tempi.”

Innanzitutto, alla signora Pivetti occorre dirlo eccome, e poco importa se non è disposta a concedercelo: quel lavoro c’è davvero chi se lo sceglie. Studi condotti negli Stati Uniti (Wendy McElroy, Jennifer James) hanno messo in luce una gamma vastissima di motivazioni che possono indurre le donne a diventare prostitute. La prostituzione ad esempio, attrae molte donne povere perché non richiede un alto grado di istruzione o di competenze professionali. “Nello svolgere una ricerca femminista – ha scritto Wendy McElroy – ho incontrato molte prostitute (la maggior parte di loro preferisce la parola puttana): sono donne intelligenti, mature, in possesso di un pensiero articolato, le quali insistono nel ribadire che la prostituzione è una loro “scelta”: insistono che non sono state costrette forzosamente, per motivi economici o altro, a vendere i loro corpi. Forniscono vari motivi per essere diventate prostitute; una vena di esibizionismo, un desiderio di guadagnare un bel po’ di denaro con un impegno di poche ore, un senso di ribellione contro la morale sessuale della società”. Parole che smentiscono clamorosamente il mito, patriarcale e femminista ad un tempo, che dipinge la prostituta necessariamente come schiava o come persona con problemi emozionali, o comunque “anormale”.

Ma il nocciolo della questione non è neppure questo: anche se si potesse dimostrare che neppure per una donna la prostituzione è una scelta volontaria, vi sarebbe sempre l’eventualità che almeno una  donna decidesse di fare questa scelta. Il punto, allora, è casomai se lo Stato ha il diritto di interferire in un’opzione di vita che, in quanto tale, non danneggia i diritti di nessuno, e ha unicamente a che vedere con il libero esercizio della propria libertà sessuale, della propria libertà economica, e, in molti casi, della propria libertà di associazione. E' apparentemente bizzarra, ma in realtà niente affatto casuale, la coincidenza di posizioni tra la cattolica iperintegralista Pivetti e un certo tipo di femministe, particolarmente attive negli Stati Uniti, che pretendono di negare ogni reale consistenza alla libera scelta di una donna di avere rapporti sessuali con chi vuole. In realtà, una delle più forti spallate al sistema patriarcale è stato il riconoscimento del diritto della donna non solo a dire di no a rapporti sessuali non desiderati, ma anche a dire sì a rapporti desiderati (per amore, per piacere, e anche per denaro). La prostituzione non è altro che un aspetto particolare del diritto di ogni individuo adulto e consenziente ad intrattenere rapporti sessuali con chi preferisce.

In secondo luogo, si è detto, il libero esercizio della prostituzione ha a che vedere con la libertà economica, ossia con il diritto di ciascun individuo a disporre come meglio crede della sua proprietà: dei propri soldi nel caso del cliente, del proprio corpo nel caso della prostituta.  Visto anche in questo caso dalla prospettiva della prostituta, il punto è se la donna ha o no diritto di vendere i propri servizi sessuali. E allora, anche in questo caso, alla signora Pivetti bisogna dirlo chiaro e forte: la prostituzione è, o può essere, un lavoro, e pertanto “un diritto e un luogo di altri diritti”.

Per quanto possa risultare inaccettabile alla sensibilità di Irene Pivetti (e, d’altro canto, del mainstream femminista non solo americano), il modo in cui la prostituta fa commercio dei propri servizi – qualora non intervenga la coercizione, cosa che, con sua buona pace, avviene eccome - non è diverso, nella sostanza, da quello in cui moltissime altre lavoratrici (e lavoratori) esercitano le loro prestazioni lavorative: un'avvocatessa vende la propria competenza legale e la propria abilità oratoria, una scrittrice vende la propria abilità con le parole, una ricercatrice vende le proprie competenze scientifiche, e così via. Tutti i lavori, del resto comportano proprio la vendita di prestazioni di parti del proprio corpo: un'operaia vende quelle delle proprie mani, una dattilografa quelle delle proprie dita, un'atleta quelle dei propri muscoli, e così via. "Io - ha dichiarato una prostituta inglese, Eva Rosta - ho scelto di vendere il mio corpo nel modo che preferisco, e ho scelto di vendere la mia vagina".

Il deliberato rifiuto della Pivetti a credere che ci siano donne per le quali la prostituzione è una scelta, è certo legittimo come qualsiasi altra opinione. Illegittima è invece la pretesa che lo Stato agisca in modo paternalistico proteggendo le donne innanzitutto da loro stesse e dalle loro libere scelte, tantopiù che le leggi che vietano la prostituzione, di fatto, danneggiano in primo luogo le prostitute, che, costrette in un mercato nero, sono esposte alle minacce ed alle violenze dei clienti e dei protettori.

Un altro risvolto illiberale delle leggi proibizionistiche, in special modo quelle che vogliono ostacolare la creazione di bordelli, è poi il fatto che violano la libertà di associazione. Anche in questo caso, del resto, le considerazioni che riguardano la natura più o meno illiberale della normazione si intrecciano strettamente con i suoi effetti pratici: se due o più prostitute vogliono associarsi perché si sentono più sicure, vi sono leggi che lo vietano: la legislazione antiprostituzione, come ha scritto Wendy McElroy, vuole donne isolate, sole, vulnerabili. Non soltanto lo stato non riconosce, di fatto, il diritto di proprietà della donna (sul proprio corpo) e la sua libertà economica (decidere come, quando, a chi e a che condizioni vendere i propri servizi), ma pretende di isolare alcune donne dalla società, e finanche di cancellarne l'identità. Nel secolo scorso, ad esempio, le prostitute registrate erano private dei documenti di identità e "librettate", ossia fornite di un particolare libretto contenente i dati anagrafici dell'intestataria. Le prostitute, ovviamente, cercavano in ogni modo di eludere la schedatura, anche attraverso la corruzione degli ufficiali di polizia, sicché finì per diffondersi una pratica della prostituzione part-time e clandestina, che consentiva alle donne di entrare o uscire dalla prostituzione e di formare una famiglia Con gli anni, la prostituzione clandestina aumentò sempre di più, a scapito di quella legale.

Ma se l'ingerenza dello stato sotto forma di legislazioni proibizionistiche si dimostra fallimentare, non meno perplessità dovrebbe suscitare l'ipotesi di una regolamentazione statale. E questo non tanto per l'abusato e moralistico argomento del "lenocinio di stato", quanto per i danni che anche "soluzioni" di questo genere finiscono per creare. Non a caso, sono spesso le prostitute le prime a rifiutare la regolamentazione, la quale finirebbe per istituzionalizzare soltanto gli aspetti peggiori della prostituzione. La vendita di sesso, infatti, "riemergerebbe", ma, di fatto, seguiterebbe ad essere vietata, se non nei termini e ai prezzi stabiliti dallo Stato.

Le prostitute dovrebbero sottoporsi a periodiche visite mediche, ma non con il medico che preferiscono, bensì, anche in questo caso, con quello imposto dallo Stato: in questo senso, la posizione di “Civiltà cattolica”, secondo cui alle donne che scelgono di prostituirsi dovrebbe essere concessa la possibilità di sottoporsi a “visite mediche non obbligatorie ma agevolate ed efficaci per limitare i rischi di contagio” ha se non altro il pregio di essere un poco meno illiberale di tante altre.

Ma soprattutto, l'obbligo di pagare le tasse e le restrizioni alla libertà finirebbero per togliere alla vendita di sesso le caratteristiche che la rendono attraente agli occhi di molte prostitute: l'autonomia con la quale queste professioniste decidono i loro prezzi, i loro orari, ecc. Nel 1877, nel pieno delle discussioni fra "regolamentaristi" e "abolizionisti" (che si battevano per l'abrogazione dell'allora vigente legislazione sulle "case chiuse", il cosiddetto "regolamento Cavour"), il ministro dell'Interno del governo Depretis, Giovanni Nicotera, denunciò in questi termini l'intromissione di stato nella prostituzione: "Un'ingerenza fastidiosa e minuta dell'autorità, in particolari dove non apparisce richiesta da veruna plausibile ragione; le donne sospette di meretricio sottoposte ad un arbitrio sconfinato e senza controllo da parte degli infimi agenti della polizia; nessuna guarentigia valevole a prevenire equivoci che possono gettare lo scompiglio e la desolazione nelle famiglie; l'autorità governativa che discende fino al punto di regolare il prezzo della prostituzione e i lucri dei tenenti postribolo, e persino gli accordi e i contratti tra questi e le prostitute". Al contrario, è proprio il grado di controllo sul proprio lavoro che rende la vendita di sesso attraente per molte prostitute, che rivendicano l'autonomia e la legittimità della loro scelta.

                Come ha scritto Wendy McElroy, "le prostitute chiedono rispetto, non pietà né accondiscendenza. Ma soprattutto, le prostitute vogliono essere prese sul serio". Anche come lavoratrici. Ripetiamolo ancora una volta: l’esercizio della prostituzione è un lavoro, e lo scambio di servizi sessuali in cambio di denaro è a tutti gli effetti un legittimo atto di capitalismo tra adulti consenzienti. Per questo, risulta inaccettabile qualunque legislazione che, sulla base di una concezione pedagogico-propagandistica del diritto che pretende di favorire l'introiezione di un senso di ripulsa verso atti che si considerano moralmente riprovevoli attraverso la solennità della loro sanzione penale, limiti il libero esercizio della prostituzione, e, con esso, dei diritti di proprietà, di scelta e di associazione.

In particolare, è fondamentale che le prostitute possano esercitare il pieno diritto di associarsi e di dar vita ad aziende di commercializzazione di servizi sessuali (e, a questo proposito, non si capisce perché la recente proposta di Livia Turco preveda soltanto la forma cooperativa: una limitazione che non si spiega se non come riflesso di una mentalità anticapitalistica e cattocomunista che vede nelle cooperative l’unico tipo di aziende nelle quali il lavoratore non è soggetto a sfruttamento). Gli stessi gesuiti di “Civiltà Cattolica”, poi, ritengono che, sul piano legislativo, “si potrebbe eliminare il reato di agevolazione, per orientare l’esercizio della prostituzione almeno in luoghi più protetti che non la strada”. Si può vedere in questa richiesta un segno di quel realismo pragmatico che spesso caratterizza i gesuiti. In realtà, sulla questione delle strade il punto fondamentale ci pare un altro, e lo diremo subito dopo. Quanto al reato di favoreggiamento (o di “sfruttamento”) della prostituzione, davvero non si comprende come una donna che intende esercitare il proprio diritto a vendere servizi sessuali non possa accordarsi con qualcuno che a propria volta le fornisca servizi di protezione e di intermediazione (che tra l’altro hanno l’effetto, come ha dimostrato l’economista libertario Walter Block, di diminuire i prezzi favorendo l’incontro fra domanda e offerta, come avviene con qualsiasi agente di commercio).

         Una prima, ovvia osservazione a cui queste considerazioni si espongono è ovviamente il disagio con cui molti cittadini vivono il crescente affollamento delle strade e delle periferie urbane di donne disponibili a vendere il proprio corpo. Disagio, ovviamente, non meno legittimo, e richiamato anch’esso dalla rivista dei gesuiti, i quali riaffermano che il millenario fenomeno della prostituzione deve essere “vietato in luogo pubblico o esposto al pubblico”. A pochi, finora, sembra però essere venuto in mente che il problema stia non tanto nella presenza delle prostitute, quanto proprio nella natura pubblica di quegli spazi. In realtà, è tutt’altro che casuale il fatto che i luoghi in cui il fenomeno si manifesta nei suoi aspetti più molesti sono generalmente strade e parchi sottratti alla proprietà privata, e requisiti dal demanio pubblico. Di fatto, come dimostrano le esperienze ormai ampiamente collaudate delle “privatopie” americane, una gestione privatistica degli spazi attualmente pubblici darebbe agli abitanti di un singolo quartiere o condominio la possibilità di esercitare liberamente il proprio diritto di inclusione e di esclusione, e di vietare l’ingresso all’interno dei propri spazi di elementi indesiderati (in questo caso, i clienti e le prostitute).

Ad esempio, potrebbe accadere che tutti i proprietari di terreno di un determinato isolato potrebbero diventare comproprietari dell'isolato stesso, formando una compagnia, la quale fornirebbe la protezione di polizia, i cui costi sarebbero sostenuti o direttamente dai proprietari di case o tramite il canone degli inquilini, nel caso in cui vi fossero appartamenti dati in affitto. I proprietari di case avrebbero un notevole interesse a garantire la sicurezza del loro isolato, e ad escludere gli elementi indesiderati che non detengono diritti di proprietà nell'area in questione, incluse, eventualmente, le prostitute.

A propria volta, la protezione di polizia fornita da agenzie private non farebbe che estendere al campo della sicurezza quel principio di concorrenza che, come sempre più persone riconoscono, è la miglior garanzia di efficienza e di qualità. Dl resto, gli istituti di vigilanza privata già esistono, e, secondo alcune stime, rappresentano ormai la terza forza di polizia italiana per numero di addetti (ma forse la prima quanto a personale effettivamente schierato sulle strade). Se negozi, banche, fabbriche, centri commerciali hanno già, all’interno della loro proprietà, guardie e sorveglianti, un'ulteriore estensione del metodo di gestione privatistica non farebbe altro che estendere tale sano ed efficiente sistema anche alle strade.

Per altro verso, le prostitute stesse sarebbero libere di acquistare appartamenti, palazzi, strade, o al limite interi quartieri nei quali esercitare il proprio lavoro senza interferire con la libertà di chi non gradisce assistere ad atti di mercimonio sessuale.

La soluzione al problema di luoghi pubblici affollati di prostitute e clienti non graditi dagli abitanti dei quartieri circostanti passa quindi, evidentemente, attraverso la "riappropriazione comunitaria" di aree sulle quali fino ad oggi era mancata la possibilità di controllo da parte degli abitanti.

 

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