L’umanitarismo di sinistra è solo paura

 

Si racconta che Maurice Barrès, ricevendo un giorno un giovane scrittore che desiderava innamorarlo alle sue idee, l’interrompesse, spazientito. “Capisco bene le vostre idee; ma qual è la vostra sete?”.

Cioé: qual è il vostro desiderio profondo, il vostro slancio generoso, il vostro sentire segreto di cui le idee sono, almeno in parte, la traduzione geometrica e concettuale?

Mi piacerebbe girare la domanda ai cabarettisti del pensiero, e ai marmorei studiosi, della nostra sinistra. Che mai come in questi giorni è apparsa fluida, confusa, magmatica, contraddittoria, a un passo dall’autocombustione. Nota a margine: dicendo “sinistra” non intendo la triade Manifesto-Repubblica-Liberazione, e neppure quell’arcipelago di cenacoli intellettuali ed happyhour guasconi che storce il naso davanti alla sagoma elfica di Silvio Berlusconi. No, la sinistra ormai è una categoria quasi metafisica, un fiume carsico che spazza tutto l’arco costituzionale. Certi soloni e certi senatori della destra parlamentare ed extra - con la dovuta eccezione di qualche convertito sincero - non sono meno “di sinistra” dei compagni di un tempo: è cambiata la casacca, forse i menù, forse le frequentazioni. Ma navigano sempre nello stesso mare, il flusso dei pensieri non si lascia scalfire dai valzer lievi delle tessere di partito.

Questa sinistra, che poi è il nostro variegato establishment, si presenta debole e divisa. Le schiere del buonismo sono divise in due. Da una parte gli amerikani di complemento, categoria curiosa: masticano a malapena qualche briciola d’inglese, hanno contribuito a spalancare le nostre frontiere all’Islam in passato - premurandosi di chiuderle all’impeto rivoluzionario del mercato. Durante il G8 rimestavano nel silenzio, o ciondolavano fra le fila copiose degli antiglobal. Oggi, scoccato il Boeing decisivo, gridano alla patria in pericolo, e s’improvvisano esperti di una cultura e di una libertà di cui ignorano persino l’alfabeto. Diciamocelo: fa sorridere scoprire apologeti dell’Occidente gente che come seconda lingua, da ragazzo, coltivava il russo. E personaggi bizzarri il cui far west intellettuale  comincia a Vladivostok.

Dall’altra, ci sono gli umanitari a gettone, Dario Fo, Franca Rame e i loro epigoni. Che piacciano o meno, dalla loro hanno una certa coerenza, per quanto interessata e regolarmente retribuita. Sono i partigiani della guerra fredda di ieri, che hanno perso i loro perché e la loro utopia: gli rimane soltanto l’immagine lontana di un nemico incomprensibile, e vi stanno aggrappati con perseverenza ammirevole.

Lasciamo perdere chi ha ragione e chi torto, o forse chi semplicemente ha meno torto, fra queste due bande camorristiche in lotta per il controllo della nostra nomenklatura culturale. Il problema è, posto che le idee sono sul piatto: qual è la vostra sete?

Nel primo caso, quello della sinistra neobombarola e militante, la risposta è ovvia. Il desiderio pressante di legittimazione, l’espiazione dei propri peccati sull’altare del conformismo. La brama insopprimibile di rientrare nel gioco, di non finire nelle retrovie, di stare al passo dei nuovi condottieri: sono pretoriani per vocazione.

Niente di nobile, s’intende. Ma è un bluff cristallino, disarmante nella sua cinica banalità. Come quel “siamo tutti americani” che è un compendio di retorica asfittica, ribadito dai grandi media con la costanza truffaldina di chi spera che una menzogna, a furia di ripeterla, si tramuti in verità. Siamo tutti americani, ma anche siamo tutti antiglobal, o siamo tutti pakistani, o siamo tutti kossovari, non fa differenza per questi vincitori per mestiere, gli artisti dell’ovvio.

Per quel che riguarda gli altri, è difficile immaginare le motivazioni umanitarie di cui, in teoria, si fanno portatori. L’umanitarismo, nel senso vero del termine (“una dottrina per gli sciocchi e i codardi”, secondo Adolf Hitler), è al di fuori delle loro coordinate ideologiche. Non c’è ansia per l’altro, non c’è condivisione della sofferenza nel loro guardare il mondo, non c’è la triste consapevolezza che uccidere un uomo non ci restituisce un morto: chi, come Fo, sputa sulla vita di cinquemila americani, che diritto ha, poi, di rivendicare rispetto per i dannati della terra?

Una confessione. Il pacifismo, per chi scrive, è un valore: uno dei valori della grande tradizione del liberalismo classico, che è la teoria politica della pace. Nell’età del commercio, scrisse Benjamin Constant, “i sovrani possono essere nemici, ma i popoli sono fratelli”.

Così, il liberale combatte la guerra non solo perché la pace, e questo è talmente evidente che a scriverlo suona stonato, è la condizione della prosperità. Ma soprattutto perché la guerra è la salute dello Stato, gli permette di espandersi, di crescere, in una bulimia di leggi, di regole, di controllo. Quest’ossessione del pericolo che incombe permette ai politici, venditori di “governo”, di piazzare meglio la loro merce: peccato che, come indovinò Thomas Paine, il business del governo sia sempre stato monopolizzato dagli individui più ignoranti e peggio intenzionati della razza umana.

Per questo la pace va difesa, perché la guerra sgombra loro il campo.

Ma sono motivazioni assenti, queste, dalla retorica pacifista della sinistra italiana. Com’è assente un sentimento profondo di pietà e di fratellanza per chi ci è vicino - in quest’universo, ideologico e paradossale, gli americani ci somigliano di meno dei palestinesi. Quasi la nazionalità accresca o diminuisca il grado di umanità del nostro prossimo.

Il problema è diverso: è che larga parte della sinistra, e non solo della sinistra, a sentire il suono gracchiante della parola “guerra” va con la mente al terzo conflitto mondiale. Quell’occasione di riscatto tanto attesa e mai arrivata. Solo che adesso, per vincere, mancano le divisioni, l’armata rossa è in disarmo, e tanto vale gridare al lupo yankee, che non è combattere, ma crearsi un alibi per la sconfitta di domani.

Il mondo è cambiato, e non se ne sono accorti. Nel nostro mondo scoppiano (purtroppo) 80 guerre l’anno, e nessuna deflagra a livello universale. I paesi della Nato sono i primi che vogliono circoscrivere il conflitto, Colin Powell via via screma e sfoltisce gli obiettivi. La guerra è cambiata, sarà più subdola, sarà peggiore, non è questo il punto. Ciò che colpisce e spaventa è come la mera, egoistica paura di scomparire si sia rifatta il trucco alle spese del più prezioso dei sentimenti. La sete di pace. E’ un bluff che pagheremo tutti, man mano che la siccità si farà più forte e più spietata.

 

Alberto Mingardi