Vendiamo le scuole!

di Roberto Enrico Paolini

“Giù le mani dalla scuola!”, e ancora “la scuola non si tocca!” Quante volte avete sentito ripetere questi slogan? Infatti, uno tra i “dogmi laici” più duri a morire è proprio quello dell’istruzione, che deve essere rigorosamente pubblica. Secondo gli intellettuali snob che affollano gli studi dei Santoro e dei Costanzo, l’unico soggetto legittimato alla produzione del sapere sarebbe lo stato.  

Perché? Semplice. Lo stato fornirebbe una istruzione neutra e imparziale, naturalmente contrapposta a quella faziosa delle scuole private in maggioranza cattoliche.

Ma allora, mi chiedo, perché non affidare ad esso anche l’intero settore dell’informazione? Immaginiamo una grigia commissione governativa che controlli quotidiani, riviste, programmi tivù, diventando di fatto l’unico editore nazionale. E per quei pochi giornaletti locali lasciati in vita, si istituisca un comitato di censura.  Ebbene, non è la stessa situazione in cui versa la scuola pubblica? Se tale operazione vi sembra una soppressione della libertà di parola e pensiero, non lo è altrettanto la negazione della libertà di istruzione, dal momento che riguarda la possibilità di influenzare giovani menti facilmente plasmabili?

C’è un altro problema: filosofi in servizio permanente effettivo, funzionari del ministero, sindacalisti ed altri “illuminati”, ci dicono che molti genitori, di fronte alla vasta offerta di proposte che una scuola libera sarebbe in grado di offrire, non saprebbero quale scegliere; quindi, meglio lo stato che sceglie al posto loro.

Ma è mai possibile che un genitore sia in grado di assumere una baby-sitter tra tantissime ragazze che riempiono di annunci di lavoro le pagine dei giornali, ma non lo si reputi all’altezza di decidere in quale istituto iscrivere il proprio bambino?

In realtà, chi difende la scuola pubblica, difende il proprio interesse ad un posto di lavoro sicuro, vitalizio e assolutamente sganciato da qualsiasi standard di qualità. Lì, gli insegnanti non devono rendere conto a nessuno, né devono cercarsi i “clienti”: la legge infatti obbliga i cittadini a servirsi di loro. Che siano di centro, di destra o soprattutto di sinistra, non cambia nulla: hanno in comune il fatto di essere i cantori di quella cultura collettivista in base alla quale la supremazia dello stato è un valore assoluto, mentre il mercato è sterco del demonio. Si risparmino la morale, abbiano il coraggio di ammettere che gli unici valori che difendono sono quelli del loro portafoglio.

La burocrazia scolastica, come ogni burocrazia che si rispetti, ha poi il vizio di accentrare le decisioni: uniformità, appiattimento culturale, omologazione, saranno il risultato di scelte prese dall’alto e uguali per tutti; e non potrebbe essere diversamente, altrimenti si rischierebbe di creare discriminazioni. E allora ecco i programmi scolastici omogenei, dalle Alpi alla Sicilia. In un primo momento tale operazione ha consentito la creazione dell’unità linguistica, cemento di ogni nazione: “prima l’Italia poi gli Italiani”, disse qualcuno, e così è stato. In un secondo tempo la nostra scuola è servita e serve tuttora a forgiare un popolo di schiavi, di “signorsì”. Il senso critico viene continuamente immolato sull’altare dell’ossequioso rispetto per qualsiasi incarnazione del potere, è indifferente che sia la volontà del sovrano illuminato, del duce o della più “democratica maggioranza”. Il compromesso è elevato a virtù. Solo così si allena lo spirito del futuro cittadino a subire ingiustizie ed angherie, in modo che da grande possa accettare serenamente qualunque “tassa per l’Europa”.

Grazie poi all’obbligatorietà scolastica, portata quasi ovunque a diciott’anni, le scuole pubbliche rappresentano delle vere e proprie prigioni. Chiunque è costretto a passarci gli anni della propria infanzia ed adolescenza. Non è ammesso l’insegnamento diretto da parte dei genitori ai propri figli: troppo pericoloso, eversivo direi. La scuola pubblica ha degli specialisti, dei professionisti apposta: loro sono i veri depositari del sapere, solo loro possono accedere alla programmazione scolastica del ministero, solo loro ricevono le circolari del provveditorato. Il sapere è tutto in quelle carte.

Se non fosse per plasmare cittadini “virtuosi”, quale altra ragione potrebbe spingere i socialisti a strapparsi i capelli quando sentono parlare qualche leader riformatore di parità scolastica (non di privatizzazione)?

Per esclusione: l’argomento efficienza è ridicolo. E’ sotto gli occhi di tutti che la scuola “democratica” statale è uno dei tanti rottami dello stato apparato. In quanto pubblica, non esiste il sistema dei prezzi che fornisce indicazioni sulla qualità dei servizi: quanto vale una lezione del professor “A”? Nessuno lo sa, e forse è meglio così. D’altronde i prof., preferiscono il più neutrale “punteggio” assegnato dal ministero piuttosto che l’impietoso giudizio dei loro studenti-consumatori. Ergo, nessun insegnante è indotto a fare meglio. Insomma, ci si limita a non esagerare con l’ozio. Una recente riforma delle elementari ha innalzato da uno a tre il numero di maestre per classe, il tutto con l’approvazione convinta degli psicologi di regime. Si sa, tre inetti sono meglio di uno. In realtà, la moltiplicazione delle cattedre è stato solo un modo per “sistemare” aspiranti prof.: ogni impiegato statale in più significa infatti un voto garantito a vita per il politico di turno. Non esistono giustificazioni né pedagogiche, né didattiche. La scuola pubblica è solo lo strumento per creare nuovi clientelismi a spese di tutti gli altri cittadini. Per quanto riguarda l’efficienza non si può quindi dire che rappresenti un modello; il fatto che uno studente costi allo stato il doppio rispetto a quanto spende un istituto privato per un proprio alunno, rende l’idea dello spreco di denaro che la contraddistingue.

E allora sarà l’efficacia del metodo di apprendimento a sancire la sua superiorità: anche qui però un bel quattro, si usava dire una volta (oggi le valutazioni avvengono con metodi strani, alle elementari sei “A” o “B”, alle medie  “buono”, “ottimo”, al liceo c’è un sistema a punti che fa rimpiangere le raccolte del “Mulino Bianco”), non glielo leva nessuno. C’è qualcuno di voi che ricorda qualcosa di importante, di utile che abbia appreso a scuola? Buio pesto. La scuola pubblica riempie gli studenti di nozioni, di numeri, di formule senza spiegare i perché delle cose. E allora tutto sembra loro vuoto, vano, vago. I ragazzi si distraggono, parlano, l’insegnante recita la parte dell’indignato e racconta ai suoi ragazzi che sono i peggiori che abbia mai avuto. Lo studente non apprende alcunchè ma almeno è demotivato al punto giusto per chiudersi in bagno a farsi una canna.

C’è oggi una alternativa a questo tipo di istruzione? No, lo stato democratico è un vero monopolista dell’educazione. Come tutti i sovrani concede qualche “privilegio”, per far vedere che è pluralista, ma si tratta di una farsa. Le poche scuole private esistenti sono enclave per rampolli di famiglie benestanti, costosissime, di pessima qualità, e in gran parte cattoliche. Garantiscono solo la promozione.

Qual è la strada da percorrere allora? Vendiamo le scuole pubbliche, privatizziamole! Lasciamo che siano i cittadini a scegliere il tipo di educazione ed istruzione da dare ai loro figli. Così si formeranno scuole cattoliche e laiche, di destra e di sinistra, steineriane e padane. Lasciamo che siano i genitori a pagare direttamente gli insegnanti: così i presidi, veri e propri manager della cultura, saranno portati ad ingaggiare i migliori professionisti del settore. In caso contrario rischierebbero il fallimento e quindi la chiusura. Ne nasceranno così di più care e di meno care, di pomeridiane e di serali. Come spazio fisico dove accompagnare i propri figli, la scuola potrebbe in parte scomparire sostituita da lezioni via internet direttamente da casa, con alunni e professore che interagiscono a distanza di migliaia di chilometri. Insomma, accadrebbe quello che solitamente avviene con ogni altro bene.

E chi non avesse i soldi per far studiare i propri ragazzi? Ecco la ragione principale che giustifica la presenza della scuola pubblica: è gratuita, dunque aperta a tutti, ricchi e poveri. Falsità: il loro “gratuita” bisognerebbe convertirlo in “sovrapagata dai contribuenti ”; essa, attraverso l’apparato coercitivo dello stato, estorce denaro a tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che abbiano figli in età scolastica, per offrire loro un pessimo servizio di cui molti farebbero volentieri a meno: per esempio coloro che iscrivono i figli in una scuola privata; questi pagano due volte, la retta e le tasse per l’istruzione pubblica altrui. Che dire allora della scuola di stato. Oltre che inefficiente e inefficace, è anche immorale. E poi, perché per garantire il servizio a pochi indigenti, occorre imporlo anche a tutti gli altri? E’ come se, per garantire il fabbisogno giornaliero di cibo a qualche minore, si organizzasse un sistema pubblico di nutrimento anche per coloro che avrebbero di che sfamarsi. Nel caso, dunque, di uno studente in difficoltà, in realtà si potrebbe ammettere un intervento dello stato, ma non necessariamente; non si può escludere infatti che in un sistema completamente privatizzato non sorgano fondazioni, associazioni o enti di carità, anch’essi finanziati con capitali privati, con la finalità di sobbarcarsi gli oneri scolastici degli studenti più poveri.

I più meritevoli sicuramente avrebbero invece da contendersi un numero maggiore borse di studio messe a disposizione da aziende con una certa fama. Addirittura c’è chi profetizza la nascita di borse valori in cui quotare gli studenti migliori: la scommessa è investire sui businness plan di quei giovani che hanno le idee chiare su cosa fare da grandi. Il libero mercato, anche quello del sapere e della scuola, ridà centralità all’individuo, un individuo responsabile, che più di qualunque burocrate sa quello che è meglio per soddisfare i propri bisogni.

Alcune regioni del Nord Italia hanno di recente optato per il buono scuola, ovvero un sussidio per consentire anche alle famiglie meno abbienti l’accesso alla scuola privata. Tale soluzione, però, nè elimina il problema della violenza originata dalla tassazione, né erode il potere di decisione dello stato riguardo da una parte, le scuole private da “riconoscere”, dall’altra, il controllo di quelle pubbliche. In sostanza si offre soltanto ad alcuni cittadini una opportunità in più, ceteris paribus.

La soluzione migliore rimane dunque la privatizzazione di tutta la scuola: si innescherebbe così un processo di concorrenza tra tutti gli operatori del settore che produrrebbe prezzi sempre più bassi e servizi di qualità.

Contestualmente sarebbe auspicabile l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Oggi qualsiasi diploma è un inutile pezzo di carta che certifica solo quanti anni abbiamo trascorso su un vecchio banco pasticciato. Al suo posto si diffonderebbero anche in Italia enti di certificazione in grado di rilasciare attestati (riconosciuti dalle imprese) circa le effettive capacità degli studenti. Le stesse scuole si organizzerebbero in modo da sostituire l’esame di fine corso (per esempio la maturità) con esami all’ingresso, al momento dell’iscrizione. Questo porterebbe gli studenti a rendersi conto di quali siano effettivamente le loro attitudini, mentre le scuole sarebbero nelle condizioni di offrire un insegnamento più mirato e personalizzato.

Infine, propongo l’abolizione dell’obbligatorietà scolastica. Ciò produrrebbe la liberazione di molti ragazzi dal regime carcerario scolastico già a tredici, quattordici anni. Alcuni di loro non si sentono portati per lo studio; non si capisce perché li si debba costringere a trascorrere del tempo in un’aula scolastica. Evidentemente lo stato preferisce il disoccupato trentenne ma laureato, piuttosto che il lavoratore ignorante in latino ma ben inserito. Il primo infatti è il classico suddito disperato, pronto a fare qualsiasi cosa pur di ingraziarsi il potente rappresentante delle istituzioni; il secondo è invece il solito borghese, ribelle e ostile nei confronti di un fisco rapace che gli sottrae più della metà dei propri averi. Basta vedere quello che accade nelle socialdemocrazie europee, dove abbondano i laureati in discipline inutili ma manca la manodopera, rimpiazzata da immigrati del terzo mondo. E’ ora di cambiare rotta: facciamo lavorare i nostri ragazzi che desiderano farlo, a qualsiasi età. Meglio un lavoratore oggi che un disoccupato domani. Non credo che questo ci porterà all’analfabetismo di massa: nell’era della comunicazione globale è indispensabile avere un minimo di istruzione che, sono portato a pensare, nessuno vorrà negare ai propri figli.

Concludo con le parole dell’economista e filosofo von Mises “vi è, in verità, un’unica soluzione: lo stato, le leggi, non debbono in nessun modo interessarsi della scuola e dell’istruzione. I fondi pubblici non devono essere usati per tali fini. L’educazione e l’istruzione dei giovani devono essere lasciate interamente nelle mani dei genitori e di associazioni e istituzioni private”.

Roberto Enrico Paolini

Pubblicato su La Gazzetta ticinese illustrata - Agosto 2001

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