Il diritto di vendere il proprio corpo

Esce in Italia un saggio di una nota femminista americana che sostiene il diritto della donna a prostituirsi, purché lo faccia in totale indipendenza. Una paradossale difesa della libertà.
di Alberto Mingardi

MILANO - Riaprire le case chiuse? Sono bastate poche parole, una frase appena, di Silvio Berlusconi per spalancare una ferita ancora aperta, per risvegliare un’indignazione mai sopita. Tuttavia, in questa bolgia di abracadabra politici, in questo vortice di demagogie per tutte le stagioni, è sempre più difficile incappare in un’analisi del fenomeno-prostituzione che vada oltre certe categorie precotte. Che non si limiti a riproporre il cliché della ragazzina sedotta e abbandonata, della carne da macello dall’Est. E nel contempo non scivoli in quella mistica del casino che è, a quanto pare, l’unico modo che certa destra conosce per affrontare la questione.

Un punto di vista originale, nuovo viene dall’America, e se ne fa portavoce Wendy McElroy, in un libro, Le gambe della libertà – Una difesa del diritto di prostituirsi, messo a disposizione del pubblico italiano da un editore piccolo e coraggioso, Leonardo Facco. La biografia della McElroy è un romanzo d’appendice: scappa di casa giovanissima, a sedici anni appena, per approdare sulle strade di New York. “C’è stato un periodo della mia vita” racconta “in cui sono stata seriamente tentata di fare la prostituta”.

Ma a questa teppistella di periferia non mancano doti che vadano oltre l’avvenenza fisica: una grande curiosità intellettuale, soprattutto. E’ per questo che viene adocchiata, e letteralmente raccolta dalla strada, da un gruppo di studiosi e giornalisti e romanzieri newyorkesi. Quelli che frequentavano il cenacolo di Ayn Rand, scrittrice e filosofa, donna forte, fortissima, quasi un’eroina romanzesca pure lei. E’ lì che Wendy trova la sua imprevedibile strada come scrittrice, nelle interminabili discussioni notturne a casa di Murray N. Rothbard, senz’altro il più importante pensatore liberale del secolo scorso, infaticabile scopritore e ‘balia’ di talenti sempre nuovi.

L’arsenale intellettuale della McElroy è, apertamente, quello di un liberalismo non solo prossimo all’anarchia, ma proprio anarchico, insofferente sì verso il totalitarismo spietato dei nazisti e dei comunisti, ma pure verso quello mascherato, invasellinato, rappresentato dalla ‘regola della maggioranza’, dalla democrazia. Un background, insomma, un pochettino diverso da quello della signora Merlin, regina della cronache di questi giorni, che il 12 ottobre 1949, spiegando al Senato il perché della sua legge, diceva: “La sfrenatezza della vita è un sintomo di decadenza. Il proletariato è una classe che deve progredire. Non gli occorre l'ebbrezza, né come stordimento né come stimolo. Dominio di sé, autodisciplina, non è schiavitù, nemmeno in amore! Signori, questo è l'insegnamento di Lenin ai giovani del suo Paese, ma anche noi dovremmo accoglierlo perché esso non contraddice i nostri credi!”.

Le parole della Merlin rivelano un collettivismo totalizzante, un ragionar per classi che, per quanto travestito da moralismo da operetta, annichilisce l’individuo, uomo o donna che sia, sotto il peso di macigni concettuali. E’ una spiegazione del mondo ambiziosa, che si promette di spiccare il volo sopra la realtà insignificante del qui e dell’ora, che tritura come uno schiacciasassi ogni guizzo individuale, ogni riferimento evanescente alle ‘preferenze personali’.

I presupposti teorici della McElroy sono esattamente antitetici. E come cozzano contro il proto-femminismo della Merlin, così fanno a pugni con le tendenze femministe oggi più in voga. La McElroy è feroce con Catherine MacKinnon e Andrea Dworkin, suffragette postmoderne che leggono nell’atto sessuale una violenza implicita, e scorgono nel pene in erezione la bandiera più vera della prepotenza capitalista. Questo cocktail di corbellerie passa sotto il nome di ‘femminismo di genere’ e, in un’inedita alleanza con gli antifemministi di ieri (la destra più conservatrice, e il mondo clericale), immagina un bando totale contro la prostituzione e la pornografia: per la Dworkin sono autentiche “aggressioni ai diritti civili delle donne”.

A rovesciare questo punto di vista ci aveva già pensato, qualche anno fa, Nadine Strossen, presidente dell’American Civil Liberties Union, in un libretto tradotto in Italia per Castelvecchi, Difesa della pornografia. La Strossen, come la McElroy, professa un femminismo diverso, ancora inedito qua da noi. Un femminismo individualista, che accende i riflettori sulle preferenze delle singole donne, che ringrazia la società borghese per aver ammesso, alla mensa dei diritti e dei doveri, gli individui di sesso femminile.

Dopo la dotta Strossen (che insegna diritto costituzionale alla New York University), tocca alla McElroy costruire un pensiero su quest’intuizione. La McElroy è autodidatta, quasi, ma autodidatta di lusso. Ha pubblicato per editori importanti come St.Martin’s Griffin e Prometheus. Ha scritto sul prestigioso National Review come su Liberty, su Reason, sul Wall Street Journal, su Penthouse. Adesso commenta fatti di cronaca ed avvenimenti politici per FoxNews, uno dei più grandi network giornalistici americani.

Ha firmato vari libri. Quello che ha fatto più discutere è XXX: A woman’s right to pornography, secondo il New York Times “uno dei lavori più iconoclasti ed originali dei nostri tempi”. Questo nuovo saggio vede la luce, ed è un altro fatto degno di nota, prima in Italia che negli Stati Uniti. Un regalo dell’autrice agli amici italiani – amici come il curatore del volume, Marco Faraci, studioso pisano che molto s’è occupato di tematiche legate alla discriminazione sessuale. O come Roberta Tatafiore, che firma una lunga ed appassionata prefazione al libro, in cui racconta il suo tragitto da femminista canonica e di sinistra (fra le animatrici del primo Manifesto), a femminista individualista, o forse post-femminista tout-court. Una testimonianza preziosa.

Come prezioso è tutto il libro della McElroy, politicamente scorretto e sessualmente scorretto se vogliamo. “Non accetto che si considerino le donne delle eterne minorenni”, scrive Wendy, e mette alla berlina la realtà triste e vera che certo femminismo approda “alla stesse conclusioni dell’odiato patriarcato”. Cioè che le donne non possano essere ritenute soggetti adulti in grado di prendere decisioni e debbano essere protette (“per il loro bene”, s’intende) da se stesse e dalle proprie scelte.

Esiste quindi, ‘un diritto alla prostituzione, come esiste un ‘diritto alla pornografia’. Il corpo è mio e me lo gestisco io? Per Wendy McElroy è ancora un precetto degno, forse non perfetto, ma senz’altro il migliore in circolazione. L’unico che si può mettere in pratica senza fare vittime, senza implorare l’intervento della legge e il suo braccio violento. Il percorso della McElroy approda a conclusioni analoghe a quelle di un classico della pamphlettistica libertaria, Difendere l’indifendibile di Walter Block (Liberilibri, secondo Aldo Busi “un libro sensato per acutezza ed estremo per analisi dei luoghi comuni intrinseci al Pensiero Perbene della maggioranza su tabù e discriminazioni sociali”). Scriveva Block (1974): “In che senso possiamo dire che tutti noi facciamo scambi e pagamenti quando facciamo del sesso?
Come minimo dobbiamo offrire qualcosa ai nostri partner potenziali perché acconsentano di fare del sesso con noi. (...) Tutti i rapporti di scambio, sia che comprendano il sesso oppure no, sono una forma di prostituzione. (...) La prostituzione andrebbe considerata semplicemente come una delle tante interazioni a cui partecipano tutti gli esseri umani”.
Che poi ci siano delle considerazioni estetiche, di moralità personale, di fede religiosa che non ci rendono entusiasti alla prospettiva che nostra figlia o nostra madre si prostituiscano, è un altro paio di maniche. Il punto, sostengono la McElroy e Block, è che si tratta di rapporti volontari fra adulti consenzienti. Di un intimo privato che il Potere non deve azzardarsi a sfiorare.

E lo sfruttamento della prostituzione? Secondo Wendy McElroy, che ha speso alcuni anni girando per l’America alla ricerca delle confessioni e delle storie delle prostitute, è una realtà marginale, almeno negli USA. Che fiorisce, però, proprio in quelle realtà dove al marchio morale per la prostituta s’aggiunge la sanzione legale. Insomma. Riaprirle o no le case chiuse? Per le voci sincere e potenti del femminismo individualista, la risposta è senz’altro no. Lo Stato pappone non è un’opzione eticamente accettabile. Neppure, però, i vincoli legali posti alla proliferazione di quartieri e strade a luci rosse, di un’industria della scopata alla luce del sole. Il sesso quindi come libera impresa.

Wendy McElroy, Le gambe della libertà – Una difesa del diritto di prostituirsi, Leonardo Facco Editore, Treviglio (Bg), 2001, pp. 108, Euro 7,74.

tratto da Il Nuovo.it

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